Parafrasi e Analisi: "Canto XXI" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Nel Canto XXI del Paradiso, Dante prosegue il suo viaggio ascensionale, raggiungendo il Settimo Cielo, quello di Saturno. Questo cielo è associato agli spiriti contemplativi, anime che in vita si dedicarono alla meditazione, alla vita ascetica e alla ricerca del divino lontano dalle distrazioni del mondo terreno. Qui il poeta affronta temi di profonda spiritualità, esplorando il valore della contemplazione e il rapporto tra l'anima umana e la sapienza divina. Il tono del canto si distingue per una solennità particolare, accentuata dall'assenza di musica e canti celesti, a sottolineare la natura austera e raccolta delle anime che abitano questo regno. Dante si interroga sul destino delle anime e sul mistero della grazia divina, guidato ancora una volta da Beatrice, la cui presenza illumina e sostiene il suo cammino nella conoscenza delle realtà celesti.


Testo e Parafrasi


Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto.

E quella non ridea; ma «S'io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:

ché la bellezza mia, che per le scale
de l'etterno palazzo più s'accende,
com' hai veduto, quanto più si sale,

se non si temperasse, tanto splende,
che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.

Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto 'l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che 'n questo specchio ti sarà parvente».

Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne l'aspetto beato
quand' io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto m'era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando l'un con l'altro lato.

Dentro al cristallo che 'l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d'oro in che raggio traluce
vid' io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che 'nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse.

E quel che presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch'io dicea pensando:
'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne.

Ma quella ond' io aspetto il come e 'l quando
del dire e del tacer, si sta; ond' io,
contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'.

Per ch'ella, che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».

E io incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che 'l chieder mi concede,

vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t'ha posta;

e dì perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per l'altre suona sì divota».

«Tu hai l'udir mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso.

Giù per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta;

né più amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta.

Ma l'alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che 'l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve».

«Io veggio ben», diss' io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;

ma questo è quel ch'a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte».

Né venni prima a l'ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
girando sé come veloce mola;

poi rispuose l'amor che v'era dentro:
«Luce divina sopra me s'appunta,
penetrando per questa in ch'io m'inventro,

la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio
la somma essenza de la quale è munta.

Quinci vien l'allegrezza ond' io fiammeggio;
per ch'a la vista mia, quant' ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio.

Ma quell' alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che 'n Dio più l'occhio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara,

però che sì s'innoltra ne lo abisso
de l'etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi.

La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
quel che non pote perché 'l ciel l'assumma».

Sì mi prescrisser le parole sue,
ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue.

«Tra ' due liti d'Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ' troni assai suonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».

Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe' sì fermo,

che pur con cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne' pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu' io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu' ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal m'era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron d'i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott' una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».

A questa voce vid' io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;

né io lo 'ntesi, sì mi vinse il tuono.
Già avevo rivolto gli occhi verso il volto
della mia donna (Beatrice), e insieme ad essi la mia mente,
e l'avevo allontanata da ogni altro mio pensiero.

Ed essa però non rideva; ma "se io ridessi"
iniziò a dirmi, "tu ti ridurresti in cenere
come successe a Semele;

poiché la mia bellezza che si accresce
man mano salendo verso i cieli del Paradiso,
come hai visto quanto più si sale

se non ti si mostrasse temperata, risplenderebbe tanto,
che la tua facoltà visiva umana, di fronte al suo splendore
sarebbe come fronda che il fulmine schianta.

Noi ci siamo innalzati al settimo cielo (di Saturno),
il quale, congiunto ora sotto il segno del Leone,
irradia la Terra insieme all'influsso di quella costellazione.

Fissa con attenzione il tuo sguardo e la tua mente,
e rispecchia nei tuoi occhi l'immagine
che ti apparirà in questo cielo".

Chi sapesse qual era il piacere
dei tuoi nel contemplare il beato aspetto (di Beatrice)
quando dovetti rivolgerli ad un altro oggetto,

conoscerebbe quanto mi fosse gradito
ubbidire alla mia scorta celeste (Beatrice)
mettendo sulla bilancia i miei due atteggiamenti.

All'interno del pianeta che, girando intorno alla Terra,
prende il nome del suo caro re (Saturno)
sotto il quale governo e mancò ogni sorta di ingiustizia,

vidi io una scala dorata per il riflesso della luce
ed eretta verso l'alto
tanto che il mio sguardo non riusciva a seguirla.

Inoltre vidi per i gradini (di questa scala) scendere
tante anime splendenti, che io pensai che ogni stella
del cielo si fossero concentrate in quel punto.

E come per istinto naturale,
le cornacchie all'alba si muovno insieme
per scaldare le piume indolenzite;

e alcune si allontanano senza ritornare,
altre ritornano al luogo dove si sono mosse,
e altre rimangono lì roteando intorno;

così mi sembrò che fosse il modo
di comportarsi di quelle anime sfavillanti, discese insieme,
non appena raggiunsero un certo gradino della scala.

E quell'anima che si fermò più vicino a noi,
diventò così luminosa, che io pensando dicevo:
"Io vedo bene quant'è la carità che tu mi mostri".

Ma quella (Beatrice) da cui io aspetto sempre consigli
sul modo e sul momento di parlare e di tacere, rimase immobile;
perciò io faccio bene a non domandare anche se controvoglia.

Perciò ella, che vedeva in Dio
la ragione del mio stare zitto,
mi disse: " Sazia il tuo ardente desiderio di conoscenza".

E io allora iniziai: "Io non sono degno
per mio merito, che tu mi risponda;
ma in nome di colei che mi concede di domandarti,

spiegami la ragione per cui sei così vicina a me
o anima santa che ti circondi, nascondendoti
dentro la tua beatitudine;

e dimmi perché in questo cielo non risuona
la dolce musica celestiale del Paradiso,
che nei cieli inferiori così devotamente riecheggiano".

"I tuoi sensi di udito e vista sono mortali"
mi rispose; "per cui qui non si canta
per la stessa ragione per cui Beatrice non ride.

Io sono sceso giù per i gradini
della scala santa, soltanto per accoglierti
con le mie parole e con la luce che mi avvolge;

non fui più sollecita per un particolare affetto per te;
poiché quassù maggiore o uguale amore ferve (in tutte le anime)
così come ti mostra il loro fiammeggiare.

Ma l'amore verso Dio, che ci rende pronte esecutrici
della volontà della Provvidenza divina;
sorteggia per ciascuna il suo compito, come puoi vedere".

"Capisco" dissi io "o anima beata,
come in questo cielo il libero amore divino
è sufficiente per esaudire i voleri della Provvidenza eterna;

ma questo è il punto che mi riesce arduo da intendere,
perché tu sola sei stata predestinata,
tra le tue compagne, a questo compito".

E non feci in tempo a completare il discorso,
che quell'anima luminosa iniziò a girare su se stessa
facendo perno del suo punto mediano;

poi rispose tramite la carità che stava dentro alla luce:
"la luce divina penetra in me
attraverso lo splendore luminoso di cui sono fasciato,

la cui virtù aggiunta alla mia intelligenza mortale,
m'innalza sopra me stesso a tal punto che vedo
la somma essenza divina da cui deriva quella luce.

Di qui deriva la gioia che mi fa brillare;
perché il fulgore della mia fiamma è pari
alla mia capacità di vedere Dio.

Ma neppure l'anima più splendente del cielo,
neppure quel Serafino che più fissa il suo sguardo in Dio,
non potrà soddisfare la tua domanda;

poiché quello che tu chiedi si inoltra tanto
nel mistero della volontà divina,
che rimane inaccessibile alle menti di ogni creatura (umana e divina).

E quando tornerai nel mondo mortale,
riferisci queste parole, cosicché l'uomo non ardisca
più a penetrare questo mistero.

L'intelletto umano, che qui (in Paradiso) risplende, in Terra è offuscato (dal peccato);
quindi puoi capire come laggiù può fare
ciò che qui non è concesso neppure una volta assunto in cielo".

Così le sue parole mi frenarono,
tanto che io abbandonai la questione, e mi ritrassi
a chiedere con umiltà chi fosse quell'anima.

"Tra le due coste d'Italia (Adriatica e Tirrena) sorgono i monti (Appennini),
non molto distanti dalla tua patria (Firenze),
così alti che superano in altezza (il punto) dove si formano i tuoni

e formano un'altura che si chiama Catria,
ai cui piedi si trova un monastero,
che da lungo tempo è consacrato solo al culto di Dio".

Così cominciò il suo terzo discorso;
e poi, continuando, disse: "In quell'eremo
mi dedicai con così salda vocazione al servizio di Dio,

che pur nutrendomi solo con cibi scarni
trascorrevo tranquillamente estati e inverni,
appagato dalla vita contemplativa.

Quel chiostro era solito fornire al Paradiso
un fertile numero di anime; e ora è diventato sterile,
cosicché presto si dovrà rivelare per ciò che è.

In quel luogo io fui Pietro Damiano,
e fui conosciuto come Pietro Peccatore
nella chiesa sul lido Adriatico (Santa Maria a Ravenna).

Mi rimanevano da vivere pochi anni,
quando fui chiamato ed eletto cardinale,
titolo che oggi si affida sempre più ai corrotti.

Pietro e Paolo, vaso dello Spirito Santo
vissero in umiltà e in povertà
accettando il cibo offerto loro in qualunque casa.

Ora, i moderni pastori pretendono
accompagnatori e portantini intorno e dietro di sé
tanto sono pesanti!

Coprono i loro cavalli dei loro mantelli,
tanto che sotto di essi si trovano non una ma due bestie:
"oh pazienza divina che tolleri tanta vergogna!".

A queste parole io vidi molte anime
a mano a mano scendere dalla scala e gironzolare,
e ogni giro le rendeva più luminose.

Intorno a quest'anima (di Pietro Damiano) vennero a fermarsi,
e fecero un grido così potente,
che sulla Terra non potrebbe essere paragonato:

né io lo compresi tanto mi colpì il tuono.



Riassunto


Versi 1-24 – L'Ascesa al Cielo di Saturno
Dopo che l'anima ha terminato di parlare, Dante si rivolge a Beatrice, la quale gli spiega il motivo per cui non gli concede un sorriso: la sua vista mortale non sarebbe in grado di sopportarne il fulgore. Nel frattempo, salgono al settimo cielo, quello di Saturno, dove dimorano le anime dedite alla contemplazione. Beatrice lo invita a prestare attenzione a ciò che presto apparirà davanti a lui.

Versi 25-42 – La Scala d'Oro
Dante, seguendo l'indicazione di Beatrice, fissa lo sguardo davanti a sé e scorge una luminosa scala dorata che si innalza senza che se ne veda la fine. Lungo di essa, numerosi spiriti si muovono, alcuni salendo, altri scendendo, suddivisi in diversi gruppi. Il loro movimento ricorda quello delle cornacchie quando si librano nell'aria in formazioni ordinate.

Versi 43-72 – L'Incontro con San Pier Damiani
Uno degli spiriti si avvicina a Dante, manifestando il desiderio di comunicare attraverso l'intensificarsi del proprio splendore. Ottenuto il consenso di Beatrice, il poeta gli pone due domande: il motivo per cui proprio lui si sia fatto avanti e perché in questo cielo non si oda il canto delle anime beate, a differenza di quanto accade nei cieli inferiori. L'anima risponde che il silenzio è dovuto alla stessa ragione per cui Beatrice non ha sorriso: la potenza della loro voce sarebbe insostenibile per Dante. Inoltre, si è accostato a lui per accoglierlo con carità, principio che anima tutti i beati.

Versi 73-102 – Il Mistero della Predestinazione
Dante fatica a comprendere perché sia stato scelto proprio quel beato per parlargli. La risposta è netta: il disegno divino è insondabile e nessuna creatura può comprenderne appieno le vie. L'anima esorta Dante a diffondere questa verità sulla terra, affinché gli uomini non si illudano di poter superare i limiti imposti loro dalla volontà di Dio.

Versi 103-126 – La Vita di Pier Damiani
Lo spirito si rivela essere san Pier Damiani (1007-1072), monaco e priore del monastero di Fonte Avellana, dove condusse una vita di raccoglimento e meditazione. Racconta poi di essere stato elevato, contro la sua volontà, alla dignità cardinalizia, allontanandosi così dall'austera esistenza che aveva scelto.

Versi 127-142 – Critica al Lusso del Clero
Pier Damiani prosegue il suo discorso con una dura critica contro la corruzione e l'opulenza del clero del suo tempo, sottolineando il contrasto tra il loro sfarzo e la povertà vissuta dagli apostoli Pietro e Paolo, che si accontentavano delle elemosine e camminavano scalzi. Il suo sdegno culmina in un'esclamazione che evidenzia l'immensa pazienza di Dio nel tollerare tali ingiustizie (oh pazïenza che tanto sostieni!). A questa invettiva segue un potente grido dei beati, così intenso e maestoso che Dante non riesce a comprenderne il significato.


Figure Retoriche


v. 1: "Occhi miei": Anastrofe.
vv. 1-2: "Volto de / la mia donna": Enjambement.
v. 2: "La mia donna": Perifrasi. Per indicare Beatrice.
vv. 4-6: "S'io ridessi tu ti faresti quale fu Semelè quando di cener fessi": Similitudine.
vv. 7-12: "La bellezza mia, che per le scale de l'etterno palazzo più s'accende, com'hai veduto, quanto più si sale, se non si temperasse, tanto splende, che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende": Similitudine.
v. 7: "Bellezza mia": Anastrofe.
v. 8: "Etterno palazzo": Perifrasi. Per indicare il paradiso.
v. 16: "Occhi tuoi": Anastrofe.
vv. 17-18: "Specchi ... specchio": Poliptoto. Ripetizione con leggera variazione.
v. 18: "Specchio": Perifrasi. Per indicare il Cielo.
vv. 19-20: "Pastura del viso mio": Metafora.
v. 20: "Viso mio": Anastrofe e sineddoche. Il tutto per la parte.
v. 20: "Aspetto beato": Perifrasi. Per indicare Beatrice.
v. 23: "Celeste scorta": Anastrofe.
v. 25: "Cristallo": Perifrasi. Per indicare il Cielo.
v. 25: "'l vocabol porta": Anastrofe.
v. 26: "Del suo caro duce": Perifrasi. Per indicare Saturno.
vv. 32-33: "Tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso": Iperbole.
vv. 34-42: "E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon sé onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; tal modo parve me che quivi fosse in quello sfavillar che 'nsieme venne, sì come in certo grado si percosse": Similitudine.
vv. 37-39: "Altre ... altre ... altre": Iterazione.
v. 44: "Dicea pensando": Ossimoro.
vv. 46-47: "Quella ond'io aspetto il come e 'l quando del dire e del tacer": Perifrasi. Per indicare Beatrice, ovvero quella dalla quale Dante si aspetta che gli dice quando parlare e quando tacere.
v. 49: "Il tacer mio": Anastrofe.
vv. 58-59: "Si tace ... la dolce sinfonia": Iperbato.
v. 71: "Consiglio che 'l mondo governa": Perifrasi. Per indicare il giudizio di Dio.
vv. 80-81: "Del suo mezzo fece il lume centro, girando sé come veloce mola": Similitudine.
v. 82: "Rispuose l'amor che v'era dentro": Metonimia. Per indicare l'anima con cui Dante stava parlando, l'astratto per il concreto.
v. 87: "Somma essenza": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 91: "Quell'alma nel ciel che più si schiara": Perifrasi. Per indicare Maria.
v. 93: "Dimanda tua": Anastrofe.
v. 95: "Etterno statuto": Perifrasi. Per indicare le leggi divine.
v. 97: "Mondo mortal": Perifrasi. Per indicare la Terra.
v. 100: "Luce": Metonimia. La causa per l'effetto, la "luce" anziché "illumina, risplende".
v. 103: "Parole sue": Anastrofe.
v. 106: "Sassi": Sineddoche. La parte per il tutto, i sassi anziché le montagne.
v. 118: "Chiostro": Sineddoche. La parte per il tutto, chiostro (parte di un convento) anziché convento/monastero.
v. 121: "Fu' io": Anastrofe.
vv. 122-123: "Casa / di Nostra Donna": Enjambement.
v. 123: "Nostra Donna": Perifrasi. Per indicare Maria.
vv. 127-128: "Il gran vasello de lo Spirito Santo": Perifrasi. Per indicare San Paolo.
v. 130: "Quinci e quindi": Paronomasia.
v. 133: "Manti loro": Anastrofe.
v. 135: "Oh pazienza che tanto sostieni!": Esclamazione.


Analisi ed Interpretazioni


Nel canto in questione, Dante esplora il Cielo di Saturno, il regno delle anime che in vita si dedicarono alla contemplazione e alla meditazione religiosa, influenzate dagli influssi della settima sfera celeste. Sarà san Benedetto, nel canto successivo, a chiarire il significato di questa dimensione paradisiaca (Par., XXII, 46-48), ma qui il protagonista è san Pier Damiani, figura di rilievo nel monachesimo medievale. Tuttavia, Dante dimostra di non avere informazioni del tutto precise sulla sua biografia.

A differenza dei cieli precedenti, l'ascesa a Saturno avviene senza che il poeta se ne renda conto, neanche osservando il crescente splendore di Beatrice. La donna gli spiega che il suo sorriso lo ridurrebbe in cenere, e per la stessa ragione le anime beate di questo cielo non cantano, un dettaglio che sarà Pier Damiani a confermare in risposta a una domanda di Dante. Alcuni studiosi vedono in questo silenzio un richiamo alla quiete dei monasteri, luoghi di riflessione e raccoglimento, mentre la scala dorata che si innalza fino all'infinito e lungo cui discendono le anime rievoca la scala sognata da Giacobbe nella Genesi (XXVIII, 12 ss.), spesso interpretata come simbolo della vita contemplativa. San Benedetto spiegherà più avanti che la scala conduce all'Empireo, dimora naturale di queste anime (Par., XXII, 68-72).

Il movimento delle anime lungo i gradini ricorda quello degli angeli nella visione di Giacobbe, e alcuni studiosi vi hanno riconosciuto un'allusione alla vera natura del monachesimo, che non si esaurisce nella solitudine meditativa ma include anche l'azione concreta a beneficio del prossimo. Questo è il caso dello stesso Pier Damiani, che, pur dedito alla vita eremitica, si impegnò attivamente per la riforma ecclesiastica.

Quando il santo si avvicina a Dante e Beatrice, la sua luce diventa più intensa in segno di affetto. Il poeta, incuriosito, gli pone due domande: la prima riguarda il motivo di questa particolare attenzione, la seconda il silenzio delle anime. Pier Damiani risponde per prima cosa al secondo quesito, spiegando che le anime non cantano perché la loro voce sarebbe troppo intensa per l'udito umano. In merito alla prima domanda, il santo chiarisce che non è per un affetto particolare che si è avvicinato a Dante, ma perché è stato scelto da Dio per manifestargli la gioia di tutto il Cielo di Saturno. Quando il poeta gli chiede perché proprio lui sia stato designato per questo compito, il santo risponde che il volere divino è insondabile e che neanche il Serafino più vicino a Dio potrebbe comprenderlo appieno. Questo riprende un tema centrale nella Commedia, ossia il limite della ragione umana di fronte al disegno divino, già trattato da Virgilio nel Purgatorio (III, 31-45) e dall'aquila del Paradiso (XX, 130-138).

Pier Damiani collega poi il tema della predestinazione all'influsso astrale, che orienta le inclinazioni umane secondo criteri divini inaccessibili alla mente umana. Questo concetto era già stato affrontato da Carlo Martello nel canto VIII del Paradiso (97-148) e sarà ripreso più avanti con il riferimento ai Gemelli, costellazione a cui Dante attribuirà il proprio talento poetico. Il santo conclude invitando gli uomini all'umiltà e avvertendoli di non presumere di comprendere i misteri divini solo con la ragione. Questa ammonizione sembra anche un'autocritica da parte di Dante, che in una fase precedente della sua vita aveva tentato di indagare razionalmente tali questioni.

A questo punto, il discorso di Pier Damiani si sposta su un'altra tematica centrale del canto: la denuncia del lusso e della corruzione del clero. Il santo ricorda il monastero di Fonte Avellana, dove visse in povertà e preghiera, contrapponendolo alla decadenza della Chiesa contemporanea. Descrive come i cardinali del Trecento, invece di seguire l'esempio degli apostoli Pietro e Paolo (che vissero poveramente, accettando solo elemosine), si abbandonino ai piaceri mondani e alla ricchezza, al punto da essere talmente obesi da aver bisogno di servitori per muoversi. Il tono della sua invettiva è fortemente ironico: i cardinali, dice, hanno mantelli tanto ampi da coprire persino i loro cavalli, e sotto la stessa cappa si nascondono due bestie, il prelato e l'animale. Questa critica anticipa quelle ancora più dure di san Benedetto (Par., XXII, 43-96) e di san Pietro (Par., XXVII), che condannerà apertamente Bonifacio VIII e i papi simoniaci.

Dopo le parole del santo, le altre anime si raccolgono attorno a lui in segno di approvazione, per poi emettere un grido assordante simile a un tuono, il cui significato sfugge a Dante. Beatrice, nel canto successivo, spiegherà che si tratta di un annuncio della futura punizione divina. Alcuni interpreti vi hanno visto un riferimento alla morte di Bonifacio VIII o di Clemente V, ma è più probabile che Dante alluda genericamente a un evento destinato a riportare la giustizia sulla Terra, un tema già evocato più volte nella Commedia attraverso profezie enigmatiche come quella del "veltro" o del "DXV".

L'intervento di Pier Damiani prepara il terreno al discorso di san Benedetto, che nel canto seguente metterà a confronto il monachesimo delle origini con quello corrotto dei tempi di Dante, riprendendo il tema già affrontato nei canti XI e XII con gli elogi a san Francesco e san Domenico e le critiche ai frati degeneri.

La condanna del lusso dei prelati nella letteratura del Trecento
La denuncia della corruzione ecclesiastica non è un'esclusiva di Dante. Anche Francesco Petrarca, nel suo Canzoniere, attacca la Curia papale di Avignone, definendola una "Babilonia" colma di vizi. Giovanni Boccaccio, nel Decameron, critica spesso il comportamento ipocrita del clero, in particolare per quanto riguarda l'avidità e la dissolutezza sessuale.

Un esempio significativo è la novella dell'abate di Cluny (Decameron, X, 2), che racconta di un ricco prelato in viaggio per Roma per visitare Bonifacio VIII. Soffrendo di disturbi allo stomaco, ottiene dal papa il permesso di recarsi ai bagni di Siena. Durante il tragitto, però, viene catturato dal brigante Ghino di Tacco, un nobile senese esiliato e divenuto fuorilegge (citato anche da Dante in Purgatorio, VI, 13). Inizialmente l'abate reagisce con arroganza, minacciando ritorsioni, ma Ghino, invece di maltrattarlo, lo cura con una dieta a base di pane e vernaccia. Guarito, il prelato rinuncia ai propositi di vendetta e intercede presso il papa affinché perdoni Ghino, che viene infine nominato cavaliere dell'Ordine degli Spedalieri.

Curiosamente, Boccaccio dipinge Ghino come un uomo magnanimo e perfino Bonifacio VIII come un pontefice di "grande animo", in netto contrasto con la severa condanna dantesca dello stesso papa. Questo dimostra come, nel tardo Trecento, il giudizio su certe figure storiche fosse diventato meno rigido rispetto all'epoca di Dante, nonostante Boccaccio fosse un grande ammiratore della Commedia.


Passi Controversi


Nel Paradiso, Dante arricchisce il suo racconto con numerosi riferimenti mitologici e storici, che contribuiscono a dare profondità e complessità al suo messaggio.

Al verso 6 viene evocato il mito di Semele, narrato nelle Metamorfosi di Ovidio. Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe, ebbe una relazione con Giove e concepì Bacco. Tuttavia, Giunone, per vendicarsi, assunse le sembianze della nutrice della giovane e la convinse a chiedere a Giove di manifestarsi nella sua forma divina. Il dio, pur cercando di dissuaderla, alla fine acconsentì, ma la sua apparizione nella piena maestosità divina ridusse Semele in cenere. Dante accenna a questo mito anche nell'Inferno, XXIX.

Nei versi 14-15 si fa riferimento a un evento astronomico: nel marzo-aprile del 1300, Saturno era in congiunzione con la costellazione del Leone. Nei versi 25-27, invece, si richiama il mito dell'Età dell'Oro, un tempo di pace e prosperità in cui Saturno, dopo essere stato spodestato dal figlio Giove, avrebbe regnato nel Lazio.

Nei versi 28-30, si descrive una scala dorata che brilla alla luce del sole. L'immagine si ispira al sogno di Giacobbe descritto nella Genesi (XXVIII, 12 ss.), in cui il patriarca vedeva una scala che toccava il cielo, percorsa dagli angeli che salivano e scendevano. San Benedetto, nel Canto XXII, riprende questa visione.

Al verso 35, le pole sono identificate come corvi grigi, simbolicamente legati agli eremiti per la loro natura solitaria. Secondo una leggenda riportata da Pier Damiani, questi uccelli erano particolarmente cari a San Benedetto e lo seguirono da Subiaco a Montecassino, dove poi nidificarono.

Nel verso 78, consorte è un plurale femminile che indica le anime che condividono la stessa condizione di Pier Damiani. Più avanti, al verso 81, la luce del beato viene descritta mentre ruota orizzontalmente su se stessa, come una macina da mulino.

Un interessante neologismo dantesco compare al verso 84: m'inventro, derivato da ventre, con il significato di "stare chiuso" o "essere avvolto". L'alma citata al verso 91 è probabilmente Maria, colei che, più di chiunque altro, legge nel pensiero divino. I Serafini (v. 92) rappresentano la gerarchia angelica più vicina a Dio e appartengono al Nono Cielo.

I versi 101-102 suggeriscono che, se la mente umana non riesce a comprendere pienamente certi misteri nemmeno in Paradiso, è ancor più limitata nella sua capacità di conoscenza sulla Terra. Nei versi 106-111, si parla della catena appenninica tra il Mar Tirreno e l'Adriatico, con particolare riferimento al Monte Catria, dove sorge l'eremo di Fonte Avellana, dimora di Pier Damiani. Il termine latrìa, usato da Dante, indica il culto esclusivo riservato a Dio, concetto che potrebbe aver appreso dagli scritti di Isidoro di Siviglia.

Nel verso 115, l'espressione cibi di liquor d'ulivi si riferisce ai pasti frugali, tipici della vita ascetica dei monaci, basati su alimenti di magro e privi di carne. Il verso 120 sembra anticipare una rivelazione riguardante la decadenza dei monasteri, sebbene il riferimento specifico rimanga incerto.

La terzina dei versi 121-123 è oggetto di dibattito, a causa del termine fu', che può significare sia "fui" che "fu". Questo rende incerta l'identità di Pietro Peccatore: alcuni ritengono possa essere un altro monaco legato alla chiesa di Santa Maria in Porto a Ravenna, mentre altri pensano che lo stesso Pier Damiani si autodefinisse così. Il lito adriano (v. 123) indica la costa del Mare Adriatico.

Dante commette un errore cronologico nei versi 124-125: Pier Damiani non divenne cardinale un anno prima della morte, come suggerisce il poeta, ma ben quindici anni prima, nel 1057. Anche il cappello cardinalizio menzionato è un'anacronismo, poiché il copricapo rosso divenne ufficialmente simbolo della dignità cardinalizia solo nel 1252, sotto papa Innocenzo IV.

Al verso 127, Cefàs è il nome che Gesù attribuì a Simone (San Pietro), con il significato di "pietra" in aramaico. Il gran vasello dello Spirito Santo è invece San Paolo, definito così in riferimento all'espressione Vas electionis ("strumento della scelta", cfr. Inferno II, 28).

Infine, l'espressione chi di rietro li alzi (v. 132) potrebbe riferirsi sia ai caudatari, i servi che reggevano il lungo strascico delle vesti dei prelati, sia agli staffieri che li aiutavano a salire a cavallo. I palafreni (v. 133) sono infatti cavalli utilizzati per il trasporto dei nobili e dei prelati.

Attraverso queste immagini e riferimenti, Dante costruisce una narrazione densa di simbolismo, in cui storia, mitologia e critica sociale si intrecciano per offrire una riflessione sulla spiritualità e sulla corruzione del clero.

Fonti: libri scolastici superiori

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