Parafrasi e Analisi: "Canto XIX" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Nel Canto XIX del Paradiso, Dante affronta un tema di grande rilevanza teologica e morale: la giustizia divina. In questo canto, il poeta si concentra sull'analisi della corruzione morale che affligge la Chiesa, rappresentata attraverso la figura di un nuovo gruppo di beati, e, in particolare, affronta la questione dei papi e delle loro scelte terrene. L'incontro con un'anima di grande autorità spirituale offre a Dante l'opportunità di riflettere sull'uso della potestà divina da parte degli uomini e sulle conseguenze di decisioni che, se distorte, minano la vera giustizia. Il Canto si inserisce così nel contesto più ampio della critica all'ipocrisia religiosa e alla miseria delle istituzioni terrene, rendendo il discorso non solo un'esplorazione filosofica, ma anche un'accurata condanna morale.
Testo e Parafrasi
Parea dinanzi a me con l'ali aperte la bella image che nel dolce frui liete facevan l'anime conserte; parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse sì acceso, che ne' miei occhi rifrangesse lui. E quel che mi convien ritrar testeso, non portò voce mai, né scrisse incostro, né fu per fantasia già mai compreso; ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, e sonar ne la voce e «io» e «mio», quand' era nel concetto e 'noi' e 'nostro'. E cominciò: «Per esser giusto e pio son io qui essaltato a quella gloria che non si lascia vincere a disio; e in terra lasciai la mia memoria sì fatta, che le genti lì malvage commendan lei, ma non seguon la storia». Così un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. Ond' io appresso: «O perpetüi fiori de l'etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, solvetemi, spirando, il gran digiuno che lungamente m'ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. Ben so io che, se 'n cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio, che 'l vostro non l'apprende con velame. Sapete come attento io m'apparecchio ad ascoltar; sapete qual è quello dubbio che m'è digiun cotanto vecchio». Quasi falcone ch'esce del cappello, move la testa e con l'ali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, vid' io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto, con canti quai si sa chi là sù gaude. Poi cominciò: «Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto, non poté suo valor sì fare impresso in tutto l'universo, che 'l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso. E ciò fa certo che 'l primo superbo, che fu la somma d'ogne creatura, per non aspettar lume, cadde acerbo; e quinci appar ch'ogne minor natura è corto recettacolo a quel bene che non ha fine e sé con sé misura. Dunque vostra veduta, che convene esser alcun de' raggi de la mente di che tutte le cose son ripiene, non pò da sua natura esser possente tanto, che suo principio non discerna molto di là da quel che l'è parvente. Però ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, com' occhio per lo mare, entro s'interna; che, ben che da la proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno èli, ma cela lui l'esser profondo. Lume non è, se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi è tenèbra od ombra de la carne o suo veleno. Assai t'è mo aperta la latebra che t'ascondeva la giustizia viva, di che facei question cotanto crebra; ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva de l'Indo, e quivi non è chi ragioni di Cristo né chi legga né chi scriva; e tutti suoi voleri e atti buoni sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. Muore non battezzato e sanza fede: ov' è questa giustizia che 'l condanna? ov' è la colpa sua, se ei non crede?". Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d'una spanna? Certo a colui che meco s'assottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse, da dubitar sarebbe a maraviglia. Oh terreni animali! oh menti grosse! La prima volontà, ch'è da sé buona, da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse. Cotanto è giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sé la tira, ma essa, radïando, lui cagiona». Quale sovresso il nido si rigira poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, e come quel ch'è pasto la rimira; cotal si fece, e sì leväi i cigli, la benedetta imagine, che l'ali movea sospinte da tanti consigli. Roteando cantava, e dicea: «Quali son le mie note a te, che non le 'ntendi, tal è il giudicio etterno a voi mortali». Poi si quetaro quei lucenti incendi de lo Spirito Santo ancor nel segno che fé i Romani al mondo reverendi, esso ricominciò: «A questo regno non salì mai chi non credette 'n Cristo, né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo; e tai Cristian dannerà l'Etïòpe, quando si partiranno i due collegi, l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe. Che poran dir li Perse a' vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? Lì si vedrà, tra l'opere d'Alberto, quella che tosto moverà la penna, per che 'l regno di Praga fia diserto. Lì si vedrà il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morrà di colpo di cotenna. Lì si vedrà la superbia ch'asseta, che fa lo Scotto e l'Inghilese folle, sì che non può soffrir dentro a sua meta. Vedrassi la lussuria e 'l viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme, che mai valor non conobbe né volle. Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando 'l contrario segnerà un emme. Vedrassi l'avarizia e la viltate di quei che guarda l'isola del foco, ove Anchise finì la lunga etate; e a dare ad intender quanto è poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. E parranno a ciascun l'opere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze. E quel di Portogallo e di Norvegia lì si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia. Oh beata Ungheria, se non si lascia più malmenare! e beata Navarra, se s'armasse del monte che la fascia! E creder de' ciascun che già, per arra di questo, Niccosïa e Famagosta per la lor bestia si lamenti e garra, che dal fianco de l'altre non si scosta». |
Appariva davanti a me con le ali aperte la bella immagine che le anime liete disegnavano con la loro posizione nella dolce visione di Dio; ciascuna di esse sembrava un piccolo rubino in cui un raggio di sole illuminasse in modo così acceso, da risplendere nei miei occhi. E ciò che devo riferire adesso, non fu mai detto né scritto, né fu mai concepito da fantasia umana. poiché io vidi e udii parlare il becco (dell'Aquila), e dire "io" e "mio", volendo in realtà dire "noi" e "nostro". E iniziò: "Poiché sono stato in vita giusto e pio, sono qui innalzato a quella gloria che supera ogni desiderio umano; e sulla Terra lasciai un mio ricordo tale, che perfino le genti malvagie lì presenti lo lodano, anche se poi non ne seguono l'esempio". Come da molti carboni ardenti si fa sentire un calore unico, così da molte anime (che formavano la figura dell'Aquila) usciva un solo suono da quella immagine. Allora io dissi subito dopo: "O fiori eterni dell'eterna beatitudine, che mi fate sentire un unico odore da tutti i vostri deliziosi profumi, risolvete, con le vostre parole, la sete di conoscenza che a lungo mi ha tormentato non avendo trovato sulla Terra alcuna risposta. Io so bene che, sebbene la giustizia divina sia rispecchiata nelle anime che abitano un altro cielo, anche il vostro (cielo) ne ha un conoscenza chiara (della Giustizia). Sapete come sono attento nell'ascoltare; e sapete qual è quel dubbio che ha provocato questo digiuno che mi angoscia da così tanto tempo". Come un falcone che si libera dal cappuccio, muove la testa e sbatte le ali, mostrando voglia (di volare) e facendosi bello, così io vidi farsi quella sagoma (l'Aquila), che era formata dalle lodi (i beati) della grazia divina, con canti che solo chi gode della beatitudine può comprendere. Poi (l'Aquila) iniziò a parlare: "Colui (Dio) che tracciò i confini del mondo, e dentro di esso dispose le cose visibili e quelle invisibili, non poté imprimere il suo valore in tutto l'universo, senza che il suo verbo non rimanesse infinitamente superiore alle capacità umane. E di ciò è prova certa il fatto che il primo superbo (Lucifero) che fu la più perfetta di ogni creatura, poiché non aspettò il lume della grazia divina, fu precipitato dal Cielo; e da ciò si evince che ogni creatura a lui inferiore è troppo limitata per contenere quel bene (divino) che è infinito e può essere compreso solo da sé stesso. Dunque la vostra vista (umana), che di necessità è solo uno dei raggi della mente divina che riempie tutte le cose con la sua bontà, non può per sua natura essere tanto potente, da scorgere (il vero aspetto di) Dio che è molto al di là di ciò che può comprendere. Perciò la vostra vista, che percepisce il mondo terreno, si addentra nella giustizia sempre eterna, come un occhio che scruta il mare; che, dalla costa riesca bene a vedere il fondo, ma in mare non lo vede; e comunque vi è, ma gli rimane nascosto a causa della sua profondità. Non è Luce, se non viene da Dio che è Luce che mai si turba; senza di Lui solo tenebre, offuscamento dei sensi o suo danno. Adesso ti è molto più aperto la fessura che ti nascondeva verso la giustizia divina, della quale facevi una questione tanto frequente; poiché tu dicevi:"Un uomo nasce su un fiume Indo, e qui non c'è chi conosca Cristo chi insegni o scriva di Lui; tutti i suoi sentimenti e le sue azioni sono buoni per quanto può giudicare la ragione umana, (ed egli è) senza peccato nelle opere o nelle parole. Muore senza battesimo e senza fede: che giustizia è questa che lo condanna? e qual è la sua colpa se egli non crede (in Dio)?" Ora, chi sei tu che vuoi salire in cattedra, per giudicare fatti lontani mille miglia con la vista corta una spanna? Certo, se la sacra scrittura non fosse per voi un'autorità colui (Dio) di cui io (l'Aquila) sono simbolo dovrebbe dubitare fortemente. O' essere terreni!, o menti rozze! La volontà divina che è buona di per sé e che è il sommo bene mai si è allontanata da sé stessa Ciò che ad essa si conforma è giusto: nessun bene creato la attrae a sé, ma essa stessa irradiandole dalla sua grazia rende buone le creature". Come la cicogna si rigira sopra il nido dopo aver nutrito i figli e come questi la guardino; così fece la benedetta immagine (l'Aquila) che sbatteva le ali mossa da tante anime, e così io alzai lo sguardo. Volteggiando cantava e diceva: "il giudizio divino è per voi mortale tale, come a te è inintelligibile il mio canto". Dopo quelle fiamme lucenti di Spirito Santo si acquietarono formando ancora l'insegna che fece il popolo di Roma degno di riverenza presso il resto del mondo l'Aquila ricominciò: "Chi non crebbe mai in Cristo non salì mai a questo regno ( Paradiso), sia prima sia dopo che fosse crocifisso. Ma vedi molti gridano: "Cristo! Cristo!", che nel giorno del giudizio saranno molto più lontani da Lui, di quanto non lo sarà chi non lo conosce; il pagano (l'Etiope) condannerà tali cristiani, quando si divideranno le due schiere, l'una ricca in eterno l'altra misera. Che potranno dire i persiani ai vostri re, quando vedranno aperto quel libroComprare libri best seller online nel quale si scrivono tutte le loro opere spregevoli? Lì (in quel libro) tra le azioni di Alberto (d'Amburgo) si leggerà quell'impresa di cui presto sarà scritto, e per la quale il regno di Boemia sarà deserto. Lì si vedrà il dolore che sopra la Senna è procurato ai francesi avendo coniato monete false da colui che morirà colpito da un cinghiale (Filippo il Bello). Lì si vedrà la superba sete di potere, che rende folli i re di Scozia e Inghilterra, tanto da non poter rimanere dentro i propri confini. Si vedranno la lussuria e il vivere agiato dei re di Spagna e di Boemia, che mai non conobbero e vollero conoscere il proprio valore. Si vedranno le opere del re di Gerusalemme, segnato quelle buone con una I, (I cioè uno poiché furono poche) quelle malvagie con una M. (M cioè mille poiché furono molte) Si vedranno l'avidità e l'abilità di colui che regge la Sicilia (isola del foco), dove Anchise morì; e per far meglio comprendere che uomo da poco sia, le sue colpe saranno scritte con parole abbreviate, per contenerne molte in poco spazio. E appariranno a tutti le opere vergognose dello zio (Giacomo re di Maiorca) e del fratello (Giacomo re di Sicilia e Aragona) che hanno disonorato una stirpe e due regni tanto nobili. Il re di Portogallo e quello di Norvegia si conosceranno lì (nel libro) e il re di Serbia, Dalmazia e Croazia che ha falsificato le monete di Venezia. O beata Ungheria se non si lasciasse più umiliare dalla Francia! E beata la Navarra se facesse parte dei Pirenei! E ognuno deve credere che, come anticipo di tutto ciò, già Cipro si lamenta e geme a causa della crudeltà del suo governante (Arrigo di Lusignano), che non si comporta diversamente dagli altri re". |
Riassunto
vv. 1-21 L'Aquila Inizia a Parlare
L'aquila, formata dagli spiriti beati, si staglia di fronte a Dante e comincia a parlare, dichiarando di essere giunta in quel cielo per aver esercitato la giustizia terrena. La sua presenza rappresenta l'incarnazione della giustizia divina che regge l'ordine del Paradiso.
vv. 22-33 Il Dubbio di Dante
Dante, colto da un antico dubbio, chiede all'aquila di chiarire un interrogativo che lo tormenta: come può la giustizia divina condannare coloro che non hanno avuto colpa, come nel caso di chi non ha ricevuto il battesimo pur avendo vissuto una vita virtuosa.
vv. 34-99 L'Insondabilità della Giustizia Divina
L'aquila risponde spiegando che Dio è infinitamente superiore all'universo creato e che la sua giustizia è al di là della comprensione umana. Gli uomini devono accettare la verità che l'intelletto umano non è in grado di afferrare pienamente il senso delle azioni divine, proprio come Dante non può cogliere il significato delle parole suonate dall'aquila. L'idea di una giustizia divina insondabile è quindi un mistero che solo la fede può abbracciare.
vv. 100-114 La Salvezza Attraverso la fede Vivificata dell'Azione
Dopo aver sospeso il suo movimento e il suo canto, l'aquila riprende il discorso affermando che, senza eccezioni, l'ingresso nel Paradiso è riservato solo a chi ha creduto in Cristo, sia che fosse venuto nel passato, sia che sia atteso nel futuro. Tuttavia, la salvezza non dipende da una fede superficiale. Non basta infatti nominare Cristo in maniera formale, come fanno molti che si professano cristiani, ma la fede deve essere vivificata dalle opere, altrimenti, anche se tali persone saranno cristiani di nome, nel Giorno del Giudizio potrebbero essere giudicate più lontane da Dio rispetto a coloro che non lo conobbero mai. Questi ultimi, paradossalmente, potrebbero essere più vicini a Dio.
vv. 115-148 Condanna dei Cattivi Sovrani Cristiani
L'aquila, osservando il libro della giustizia divina, condanna le azioni malvagie di alcuni principi cristiani contemporanei di Dante. Tra questi, Filippo il Bello e Carlo II d'Angiò sono accusati di aver tradito i principi della giustizia. L'aquila ribadisce la responsabilità dei sovrani di governare con equità, sottolineando che anche quelli che, pur avendo ricevuto la luce della fede, hanno peccato gravemente con le loro azioni, saranno giudicati severamente nel Giorno del Giudizio.
Figure Retoriche
v. 2: "La bella image": Perifrasi. Per indicare l'aquila.
vv. 4-6: "Parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse sì acceso, che ne' miei occhi rifrangesse lui": Similitudine.
v. 10: "Lo rostro": Sineddoche. La parte per il tutto, il becco anziché l'aquila..
v. 13: "Giusto e pio": Endiadi.
v. 13: "Son io": Anastrofe.
vv. 19-21: "Così un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image": Similitudine.
v. 21: "Di quella image": Perifrasi. Per indicare l'Aquila.
vv. 25-27: "Il gran digiuno che lungamente m'ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno": Perifrasi. Per indicare il grande dubbio che da lungo tempo lo faceva stare in ansia poiché sulla Terra non riusciva a trovare una risposta.
v. 28: "Ben so io": Anastrofe.
v. 28: "Altro reame": Perifrasi. Per indicare i Troni nel cielo di Saturno.
v. 29: "Divina giustizia": Anastrofe.
vv. 31-32: "Sapete ... sapete": Iterazione. Ripetizione della stessa parola.
vv. 34-37: "Quasi falcone ch'esce del cappello, move la testa e con l'ali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, vid'io farsi quel segno": Similitudine.
v. 36: "Voglia mostrando": Anastrofe.
v. 37: "Quel segno": Perifrasi. Per indicare l'Aquila.
v. 38: "Divina grazia": Anastrofe.
vv. 40-42: "Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 42: "Occulto e manifesto": Antitesi.
v. 46: "'l primo superbo": Perifrasi. Per indicare Lucifero.
v. 50: "Quel bene": Perifrasi. Per indicare Dio.
vv. 53-54: "La mente di che tutte le cose son ripiene": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 55-56: "Possente / tanto": Anastrofe ed Enjambement.
v. 56: "Suo principio": Perifrasi. Per indicare Dio creatore.
vv. 58-60: "Però ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, com'occhio per lo mare, entro s'interna": Similitudine.
v. 64: "Dal sereno che non si turba mai": Perifrasi. Per indicare Dio.
vv. 73-74: "Buoni / sono": Anastrofe ed Enjambement.
v. 78: "Colpa sua": Anastrofe.
v. 85: "Oh terreni animali! oh menti grosse!": Esclamazione.
v. 86: "La prima volontà": Perifrasi. Per indicare la volontà di Dio.
vv. 91-96: "Quale sovresso il nido si rigira poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, e come quel ch'è pasto la rimira; cotal si fece, e sì levai i cigli, la benedetta imagine, che l'ali movea sospinte da tanti consigli": Similitudine.
v. 95: "La benedetta imagine": Perifrasi. Per indicare l'Aquila.
vv. 97-99: "Quali son le mie note a te, che non le 'ntendi, tal è il giudicio etterno a voi mortali": Similitudine.
v. 100: "Incendi": Iperbole. Anziché dire semplicemente "lumi".
vv. 101-102: "Nel segno che fé i Romani al mondo reverendi": Perifrasi. Per indicare ancora una volta l'Aquila.
v. 105: "Al legno": Metonimia. La materia per l'oggetto, al legno anziché in croce.
v. 118: "Sovra Senna": Sineddoche. La parte per il tutto, s'intende la Francia.
v. 120: "Quel che morrà di colpo di cotenna": Perifrasi. Per indicare Filippo il Bello.
v. 121: "La superbia ch'asseta": Metafora.
v. 122: "Lo Scotto e l'Inghilese": Perifrasi. Per indicare i re di Scozia e d'Inghilterra.
v. 125: "Quel di Spagna": Perifrasi. Per indicare il re di Spagna Ferdinando IV.
v. 125: "Quel di Boemme": Perifrasi. Per indicare il re di Boemia Venceslao II.
v. 127: "Ciotto di Ierusalemme": Perifrasi. Per indicare Carlo II d'Angiò, lo zoppo di Gerusalemme.
v. 128: "La sua bontate": Sineddoche. Il singolare per il plurale, buona azione anziché buone azioni.
vv. 130-131: "L'avarizia e la viltate di quei che guarda l'isola del foco": Perifrasi. Per indicare Federico II d'Aragona.
v. 131: "L'isola del foco": Perifrasi. Per indicare la Sicilia.
v. 132: "Ove Anchise finì la lunga etate": Eufemismo.
v. 137: "Del barba e del fratel": Perifrasi. Per indicare Giacomo di Maiorca e Giacomo II di Sicilia.
v. 139: "Quel di Portogallo e di Norvegia": Perifrasi. Per indicare i re di Portogallo (Dionigi) e di Norvegia (Acone).
vv. 140-141: "Quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia": Perifrasi. Per indicare il sovrano di Serbia Stefano Uroš.
vv. 142-144: "Oh beata Ungheria, se non si lascia più malmenare! e beata Navarra, se s'armasse del monte che la fascia!": Esclamazione.
v. 144: "Del monte che la fascia": Perifrasi. Per indicare la catena montuosa dei Pirenei che delinea i confini con la Francia.
v. 146: "Niccosia e Famagosta": Metonimia. Il contenente per il contenuto. Per indicare il Regno di Cipro.
v. 147: "Per la lor bestia": Perifrasi. Per indicare Arrigo di Lusignano.
v. 147: "Si lamenti e garra": Endiadi.
Analisi ed Interpretazioni
Nel Canto XIX del Paradiso, Dante affronta una tematica delicata e complessa: la giustizia divina e la salvezza. Dopo l'intenso tono invettivo del canto precedente, l'atmosfera si fa più contemplativa, con l'apparizione maestosa dell'Aquila, simbolo della giustizia di Dio. La riflessione di Dante sulla giustizia trascende il cielo di Giove e investe l'intera struttura della Commedia, rivelando la sua centralità nell'opera. La giustizia divina, invocata sin dall'inizio del poema come risposta a un mondo segnato dalla violenza e dall'inganno, è chiamata a restaurare l'ordine divino. La questione specifica che il canto esplora riguarda il modo in cui la giustizia divina determina la salvezza, in particolare per i giusti pagani, una questione che non è solo teologica, ma si ricollega al problema della giustizia terrena e alla sua imperfetta applicazione.
L'Aquila, nella sua maestosa apparizione, risponde ai dubbi di Dante sulla giustizia divina, risolvendo un tormento che lo affligge da anni, simile a un "digiuno" di risposte. Sebbene Dante non faccia esplicitamente le sue domande, gli spiriti beati, che leggono i suoi pensieri, gli forniscono le risposte che cerca. L'Aquila si presenta come un'entità composta da innumerevoli spiriti beati, ma parla con una sola voce, suscitando lo stupore di Dante, che si vanta di essere il primo a descrivere un fenomeno così straordinario. La figura dell'Aquila si rivela quindi come una sintesi di tutte le anime giuste che, in vita, sono state governanti giusti e pii, esempio di una giustizia terrena che riflette quella divina.
Molti studiosi hanno dibattuto sulla natura degli spiriti del VI Cielo, ponendosi la questione se tutti fossero, in vita, sovrani o governanti. L'inclusione di figure bibliche come i re Davide ed Ezechia, gli imperatori Costantino e Traiano, e il re normanno Guglielmo il Buono suggerisce una visione che vede nella giustizia divina un modello che guida i governanti. Questo è ulteriormente confermato dalla critica dell'Aquila verso i cattivi sovrani cristiani, una denuncia che prepara la rassegna degli spiriti giusti nel Canto successivo. L'Aquila ammonisce che la giustizia di Dio deve guidare i re e i governanti, ispirandoli a governare secondo la giustizia divina, con la consapevolezza che solo Dio conosce il destino finale di ognuno.
Il problema che affligge Dante riguarda il modo in cui la giustizia divina si applica a casi controversi, come quello dei virtuosi che non hanno avuto la possibilità di conoscere il cristianesimo, come i pagani vissuti prima della nascita di Cristo, o coloro che non sono stati battezzati, destinati al Limbo. L'Aquila risponde a questa questione con un discorso che evidenzia la limitatezza della ragione umana rispetto alla divinità. La giustizia di Dio è incomprensibile per l'uomo, e l'intelletto umano deve accettare la fede senza pretendere di comprendere razionalmente i misteri divini.
La giustizia divina è paragonata a un fondale oceanico che l'occhio umano può osservare solo da vicino, ma non può comprendere appieno. L'Aquila ribadisce il pensiero di Virgilio nel Purgatorio, che è follia cercare di capire con la sola ragione i misteri della fede. La giustizia di Dio non può essere compresa completamente, ma deve essere accettata come verità rivelata. L'Aquila afferma che chi vive lontano dal cristianesimo, pur avendo condotto una vita virtuosa, non può essere salvato, una posizione che sembra ingiusta alla ragione umana, ma che sottolinea la necessità di accettare il giudizio divino come una verità trascendente.
La conclusione del Canto è una denuncia contro i cattivi sovrani cristiani, che nonostante avessero ricevuto la luce della fede, hanno commesso numerose ingiustizie. Dante accusa i malgoverni e la corruzione del potere, elementi che contribuiscono alle ingiustizie nel mondo e contrastano con la giustizia divina. Tra i sovrani criticati ci sono Alberto I d'Asburgo, Filippo il Bello e Carlo II d'Angiò, mentre emerge la figura di Caroberto, destinato a governare giustamente l'Ungheria, come esempio di un governo retto dalla giustizia. L'Aquila annuncia anche il giudizio positivo nei confronti di Traiano e Rifeo, due pagani che si trovano tra gli spiriti giusti in Paradiso, un evento che sfida le aspettative e prepara il terreno per un discorso più ampio sulla salvezza.
Nel Canto successivo, il tema della giustizia divina prosegue con la discussione sulla predestinazione, sottolineando che solo Dio conosce chi è destinato alla salvezza. La visione di Luigi Pulci, che nel suo Morgante propone una visione razionalista sulla salvezza dei non-cristiani, si distacca dall'insegnamento della Chiesa e da quello di Dante, aprendo un dibattito che segnerà le questioni teologiche del Rinascimento e delle riforme religiose. La critica di Dante alla corruzione ecclesiastica e alla cattiva amministrazione pubblica si intreccia con la riflessione sulla salvezza, mostrando come la giustizia divina debba permeare ogni aspetto del governo e dell'amministrazione terrena, in un continuo confronto con l'ideale cristiano di giustizia.
Passi Controversi
Nel verso 2, il termine frui è un infinito sostantivato che indica "godimento" (derivato dal latino frui, "godere").
Nei versi 13-15, l'aquila afferma che gli spiriti che la compongono sono stati giusti e pii sulla Terra, qualità che sono state attribuite a Traiano nel Purgatorio (X, 73 ss.). Questo rafforza l'idea che tali spiriti siano per lo più re e principi.
Nei versi 28-30 si fa riferimento al fatto che la giustizia divina è rappresentata nella gerarchia angelica dei Troni, come già evidenziato in IX, 61-63, senza escludere che i beati possano comprenderla pienamente.
La similitudine nei versi 34-36 si collega alla pratica del falconiere di mettere un cappuccio sulla testa del falco per calmarlo, rimuovendolo solo quando arrivano nel luogo della caccia. Questo uso, che Federico II introdusse in Europa, aveva origini orientali. È possibile che anche l'aquila muova la testa e sbatta le ali, dato che poco dopo volerà intorno a Dante.
Il termine "sesto" (v. 40) è un'antica parola per "compasso", e Dante lo usa per descrivere come Dio traccia i confini dell'Universo, come esemplificato in Proverbi VIII, 27-29.
Nel verso 46, "il primo superbo" si riferisce a Lucifero.
Nei versi 64-66, si afferma che solo la conoscenza che proviene direttamente da Dio è perfetta, mentre quella umana può essere errata e portare a opinioni errate, anche eretiche.
L'espressione a la riva / de l'Indo (vv. 70-71) indica simbolicamente un luogo lontano, agli estremi confini del mondo, dove abitano popoli che non hanno conosciuto il messaggio evangelico; lo stesso concetto si ritrova più avanti con il riferimento all'Etiope (v. 109).
Nel verso 82, me co s'assottiglia significa che l'aquila fa ragionamenti sottili riguardo alla giustizia divina.
Il segno che i Romani lasciarono al mondo, "reverendi" (vv. 101-102), è l'aquila, simbolo dell'Impero Romano.
Nei versi 104, 106, 108, il termine Cristo viene ripetuto in rima, come in altri passi del poema (ad esempio in XII, 71-75 e XIV, 104-108).
Nei versi 109-111, si sostiene che coloro che non hanno conosciuto la fede ma si sono comportati giustamente saranno più meritevoli dei Cristiani ipocriti che, pur proclamando il Vangelo, non otterranno la salvezza. Questo non implica, però, che i primi saranno salvati.
Nel verso 112, li Perse si riferisce genericamente agli infedeli.
Le dodici terzine che iniziano al verso 115 possono essere suddivise in tre gruppi di quattro, ognuno dei quali inizia rispettivamente con Lì si vedrà, Vedrassi e E, formando l'acrostico LVE ("lue"), che può essere inteso come sinonimo di "peste", riferendosi ai cattivi esempi offerti dai principi corrotti. Questo meccanismo è simile all'acrostico VOM di Purgatorio, XII, 25-63, anche se in questo caso è meno complesso. Alcuni studiosi ritengono che Dante non abbia intenzionalmente creato quest'acrostico, sebbene sia una questione discussa.
Nei versi 115-117, si fa riferimento all'invasione della Boemia da parte dell'imperatore Alberto I nel 1304, che provocò la distruzione del regno. Dante condanna questo atto, pur riconoscendo la subordinazione dei singoli regni all'autorità imperiale.
I versi 118-120 riguardano Filippo il Bello di Francia, accusato di coniare monete false per finanziare la guerra contro le Fiandre. Secondo Dante, la sua morte avverrà per mano di un cinghiale, anche se la realtà storica racconta che morì cadendo da cavallo durante una battuta di caccia, quando un cinghiale si intromise tra i cavalli.
Il re d'Inghilterra menzionato nei versi 121-123 è probabilmente Edoardo I, che combatté contro la Scozia fino alla sua morte nel 1307. Sebbene il poeta lo lodi in Purgatorio, VII, 132, alcuni esperti dubitano che Dante si riferisse a Edoardo II.
Nei versi 124-126 si parla di Ferdinando IV di Castiglia e Venceslao II di Boemia, accusati di condurre una vita viziosa.
Nei versi 127-129 si fa riferimento a Carlo II d'Angiò, definito sarcasticamente "Ciotto di Ierusalemme" per il suo titolo onorifico di re di Gerusalemme, benché fosse zoppo. L'aquila sottolinea che nel "libro della giustizia divina" le sue azioni positive saranno segnate con una 'I' (uno, indicante la rarità), mentre le sue malefatte saranno segnate con una 'M' (mille, ovvero moltissime), e queste lettere rappresentano anche l'inizio e la fine di "Ierusalem".
Il "fuoco" della Sicilia (v. 131) è un riferimento all'Etna, e il re a cui si fa riferimento è Federico II d'Aragona, riconosciuto come re di Trinacria nel 1303. Nei versi 133-135 si afferma che le sue malefatte saranno contrassegnate in modo abbreviato, sia per la loro numerosità, sia per rappresentare la sua meschinità.
Il "barba" e "fratel di Federico II" (vv. 136-138) sono Giacomo di Maiorca e Giacomo II di Sicilia, che disonorano la loro casata.
Nei versi 139-141 si fa riferimento ai re Dionigi di Portogallo e Acone V di Norvegia, che erano in realtà buoni sovrani, ma Dante, con scarse informazioni su di loro, li critica. Di Rascia si riferisce a Stefano Uroš II di Serbia, che introdusse una moneta propria, sostituendo quella veneziana.
I versi 142-144 prevedono il buon governo di Caroberto sull'Ungheria, sebbene sia più un auspicio che una previsione concreta. Il destino della Navarra, dopo la morte di Giovanna I nel 1305, fu diverso, con il passaggio della corona alla casa di Francia, così come l'isola di Cipro, sotto il governo di Arrigo II di Lusignano.
Fonti: libri scolastici superiori