Parafrasi, Analisi e Commento di: "La sera del dì di festa" di Giacomo Leopardi


Immagine Giacomo Leopardi
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi puntuale
4) Parafrasi discorsiva
5) Figure Retoriche
6) Analisi e Commento
7) Confronti
8) Domande e Risposte

Scheda dell'Opera


Autore: Giacomo Leopardi
Titolo dell'Opera: Canti
Prima edizione dell'opera: 1831, presso l'editore Piatti. Mentre la poesia, composta nel 1820, comparve per la prima volta nel 1825 sul "Nuovo Ricoglitore"
Genere: Poesia lirica
Forma metrica: Endecasillabi sciolti



Introduzione


"La sera del dì di festa" è una delle liriche più celebri di Giacomo Leopardi, scritta nel 1820 e inclusa nella raccolta dei "Canti". Questa poesia appartiene al gruppo delle "Canzoni" leopardiane, e si distingue per il suo tono malinconico e riflessivo. Il componimento si sviluppa attraverso il tema della caducità della felicità umana e la desolazione che segue i momenti di festa. Leopardi, con il suo stile inconfondibile, unisce immagini semplici e quotidiane a profonde meditazioni sull'esistenza, creando un contrasto tra la bellezza della natura e il dolore interiore. La poesia è anche un dialogo con la memoria e il passato, e offre uno sguardo intimo sull'inquietudine del poeta, sul senso di solitudine e sulla vana ricerca di conforto nelle cose terrene.


Testo e Parafrasi puntuale


1. Dolce e chiara è la notte e senza vento,
2. e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
3. posa la luna, e di lontan rivela
4. serena ogni montagna. O donna mia,
5. giá tace ogni sentiero, e pei balconi
6. rara traluce la notturna lampa:
7. tu dormi, ché t'accolse agevol sonno
8. nelle tue chete stanze; e non ti morde
9. cura nessuna; e giá non sai né pensi
10. quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
11. Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno
12. appare in vista, a salutar m'affaccio,
13. e l'antica natura onnipossente,
14. che mi fece all'affanno. — A te la speme
15. nego — mi disse, — anche la speme; e d'altro
16. non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. —
17. Questo dí fu solenne: or da' trastulli
18. prendi riposo; e forse ti rimembra
19. in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
20. piacquero a te: non io, non giá ch'io speri,
21. al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
22. quanto a viver mi resti, e qui per terra
23. mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi
24. in cosí verde etate! Ahi! per la via
25. odo non lunge il solitario canto
26. dell'artigian, che riede a tarda notte,
27. dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
28. e fieramente mi si stringe il core,
29. a pensar come tutto al mondo passa,
30. e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
31. il dí festivo, ed al festivo il giorno
32. volgar succede, e se ne porta il tempo
33. ogni umano accidente. Or dov'è il suono
34. di que' popoli antichi? or dov'è il grido
35. de' nostri avi famosi, e il grande impero
36. di quella Roma, e l'armi, e il fragorío
37. che n'andò per la terra e l'oceáno?
38. Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
39. il mondo, e piú di lor non si ragiona.
40. Nella mia prima etá, quando s'aspetta
41. bramosamente il dí festivo, or poscia
42. ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
43. premea le piume; ed alla tarda notte
44. un canto, che s'udía per li sentieri
45. lontanando morire a poco a poco,
46. giá similmente mi stringeva il core.
1. La notte è calma, luminosa e priva di vento
2-3. e la luna splende tranquilla sui tetti e tra i giardini e con la sua luce mostra in lontananza
4. Il profilo delle montagne attraverso il cielo sereno. O mia amata,
5. Il silenzio regna su ogni sentiero e attraverso i balconi
6. Si intravedono le luci delle lampade notturne filtrare:
7. tu dormi, poiché ti prese il sonno facilmente
8. nelle tue stanze tranquille; e non ti tormenta (morde)
9. Nessuna preoccupazione (cura); e non sai e nemmeno immagini
10. Quanto grande sia la ferita che mi apristi nel cuore (in mezzo al petto).
11-12. Tu dormi: io mi affaccio alla finestra a salutare questo cielo che all'apparenza sembra così benevolo
13. e quell'eterna natura che può tutto
14-15. E che mi creò per soffrire. Mi disse: "A te tolgo la speranza, anche la speranza;
16. e i tuoi occhi non devono brillare in altri momenti se non in quello delle lacrime".
17. Questa giornata è stata di festa: ora dagli svaghi (trastulli)
18-19. ti riposi, e forse sognando stai contando nel ricordo a quanti oggi sei piaciuta e quanti
20-21. ti sono piaciuti: nei tuoi pensieri io non ci sono, né tantomeno nutro la speranza di esserci. Intanto io chiedo
22. quanto mi rimanga da vivere e qui per terra
23. mi getto, urlo e nell'agitazione mi tormento. Oh, che giorni terribili,
24. in un'età così giovane! Ahimè
25. Sento a non molta distanza per strada il canto solitario
26. dell'artigiano che dopo i divertimenti fa ritorno tarda notte
27. alla sua povera abitazione
28. e mi si stringe violentemente il cuore nell'angoscia
29. di pensare a come tutto nella vita passa
30. non lasciando quasi nessuna traccia. Ecco se n'è già andato
31. il giorno festivo, e al giorno festivo
32. segue quello lavorativo (volgar) e così di giorno in giorno il tempo trascina con sé
33. ogni vicenda umana. Dov'è ora il ricordo
34. di quei famosi popoli dell'antichità? Dov'è ora il grido glorioso
35. dei nostri antenati famosi e il grande impero
36. Di quella famosa Roma e il rumore delle armi (e l'armi, e il fragorìo)
37. che percorse tutta la terra e l'oceano?
38. Dovunque c'è pace e silenzio
39. e il mondo intero riposa e di loro ormai non si parla più.
40. Già (v.46) nella mia infanzia, nel momento in cui normalmente si aspetta
41. con trepidazione il giorno festivo, oppure quando come adesso
42. Questo si è appena concluso, io angosciato restavo sveglio,
43. mi muovevo agitato nel letto schiacciando la testa sul cuscino (premea le piume); e a tarda notte
44. un canto che si udiva attraverso i sentieri
45. e che lentamente si spegneva (moriva) allontanandosi,
46. allo stesso modo mi provocava angoscia.



Parafrasi discorsiva


La notte è calma, luminosa e priva di vento e la luna splende tranquilla sui tetti e tra i giardini e con la sua luce mostra in lontananza il profilo delle montagne attraverso il cielo sereno. O mia amata, il silenzio regna su ogni sentiero e attraverso i balconi si intravedono le luci delle lampade notturne filtrare: tu dormi, poiché ti prese il sonno facilmente nelle tue stanze tranquille; e non ti tormenta ("morde", v.8) nessuna preoccupazione ("cura", v.9); e non sai e nemmeno immagini quanto grande sia la ferita che mi apristi nel cuore ("in mezzo al petto", v.10). Tu dormi: io mi affaccio alla finestra a salutare questo cielo che all'apparenza sembra così benevolo e quell'eterna natura che può tutto e che mi creò per soffrire. Mi disse: "A te tolgo la speranza, anche la speranza; e i tuoi occhi non devono brillare in altri momenti se non in quello delle lacrime". Questa giornata è stata di festa: ora dagli svaghi ("trastulli", v.17) ti riposi, e forse sognando stai contando nel ricordo a quanti ragazzi oggi sei piaciuta e quanti sono piaciuti a te: nei tuoi pensieri io non ci sono, né tantomeno nutro la speranza di esserci. Intanto io chiedo quanto mi rimanga da vivere e qui per terra mi getto, urlo e nell'agitazione mi tormento. Oh, che giorni terribili, in un'età così giovane! Ahimè, sento a non molta distanza per strada il canto solitario dell'artigiano che dopo i divertimenti fa ritorno tarda notte alla sua povera abitazione e mi si stringe violentemente il cuore nell'angoscia di pensare a come tutto nella vita passa non lasciando quasi nessuna traccia. Ecco se n'è già andato il giorno festivo, e al giorno festivo segue quello lavorativo ("volgar", v.32) e così di giorno in giorno il tempo trascina con sé ogni vicenda umana. Dov'è ora il ricordo di quei famosi popoli dell'antichità? Dov'è ora il grido glorioso dei nostri antenati famosi e il grande impero di quella famosa Roma e il rumore delle armi ("e l'armi, e il fragorìo", v.36) che percorse tutta la terra e l'oceano? Dovunque c'è pace e silenzio e il mondo intero riposa e di loro ormai non si parla più. Già (v.46) nella mia infanzia, nel momento in cui normalmente si aspetta con trepidazione il giorno festivo, oppure quando come adesso questo si è appena concluso, io angosciato restavo sveglio, mi muovevo agitato nel letto schiacciando la testa sul cuscino ("premea le piume", v.43); e a tarda notte un canto che si udiva attraverso i sentieri e che lentamente si spegneva (moriva, v.45) allontanandosi, allo stesso modo mi provocava angoscia.


Figure Retoriche


Apostrofi: v. 4, vv. 7-11: "O donna mia", "Tu dormi".
Con questa figura il poeta crea il quadro della poesia, in cui egli si rivolge direttamente alla donna di cui si è innamorato.

Anafore: vv. 7, 11, vv. 33-34: "tu dormi ... tu dormi", "or dov'è... or dov'è".
L'anafora dei vv. 7, 11 enfatizza la natura ironica della situazione in cui il poeta si strugge d'amore mentre la ragazza, ignara di tutto, dorme; l'anafora dei vv. 33-34 sottolinea la natura polemica delle domande retoriche poste da Leopardi.

Polisindeti: vv. 1-3, vv. 9-10, vv. 22-23, vv. 35-36: "Dolce e chiara è la notte e senza vento/ e quieta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna e di lontan rivela...": l'elenco rallentato contribuisce alla creazione dell'immagine di serenità che apre la poesia, "e non ti morde/ cura nessuna e già non sai né pensi": la figura sottolinea e ripete di come la ragazza sia totalmente spensierata, "e qui per terra/ mi getto e grido e fremo": rispetto alla precedente Leopardi mette appunto in contraddizione la propria sofferenza rispetto alla tranquillità della ragazza, "e il grande impero/ di quella Roma, e l'armi, e il fragorio": l'elenco degli elementi di grandezza associati all'Impero Romano accentua l'altisonanza delle parole rispetto all'effimero della vita che Leopardi vuole descrivere.

Metafore: v. 24: "in così verde etate": la metafora, classica, collega il colore delle piante nel loro rigoglio con l'età della giovinezza nell'essere umano.

Parallelismi: vv. 33-35: "or dov'è il suono/ di quei popoli antichi?/ or dov'è il grido/ dei nostri avi famosi".
Le due interrogative retoriche ripetute simmetricamente espongono il concetto di grandezza tradizionalmente legato all'Antica Roma.

Metonimia: v. 5: "già tace ogni sentiero": il silenzio di un sentiero è collegato per estensione a tutte le strade circostanti.

Chiasmi: vv. 30-32: "è fuggito/ il dì festivo, ed al festivo il giorno/ volgar succede".
L'inversione e l'opposizione di giorno festivo e lavorativo sottolineano lo scorrere del tempo identico e inarrestabile da un giorno all'altro.

Prosopopea: vv. 14-15: "A te la speme/ nego, mi disse, anche la speme": viene data metaforicamente parola alla natura che con il discorso diretta si rivolge a Leopardi.

Domanda retorica: vv. 33-37: "or dov'è il suono/ di quei popoli antichi/ or dov'è il grido/ dei nostri avi famosi, e il grande impero/ di quella Roma e l'armi e il fragorio/ che n'andò per la terra e l'oceano?": Leopardi pone una domanda della quale conosce già la risposta, contenuta nel verso successivo (v. 38).

Climax: v. 23: "mi getto e grido e fremo": le tre azioni così elencate indicano il crescere del dolore del poeta.

Sineddoche: v. 43: "premea le piume".
Le piume sono la parte maggiore di cui sono composti i cuscini sui quali il poeta trascorre la notte arrovellandosi.

Ironia: vv.11-14: "io questo ciel, che sí benigno appare in vista, a salutar m'affaccio, e l'antica natura onnipossente, che mi fece all'affanno".
Leopardi fa autoironia chiamando "benigna" la natura che gli ha riservato un destino di infelicità e malattia.


Analisi e Commento


Storico-letterario

La sera del dì di festa compare nell'edizione dei Canti del 1931, edita da Piatti, e poi nelle successive del 1835 e 1845. La lirica, composta nel 1820, fu però pubblicata per la prima volta nel 1825 sul "Nuovo Ricoglitore" insieme a L'infinito, Alla luna, Il sogno e La vita solitaria, ossia quelle poesie realizzate tra il 1819 e il 1821 che compongono la sezione dei Canti definita dal critico Francesco de Sanctis "piccoli idilli". Secondo la tradizione classica, un idillio è un breve componimento poetico dal contenuto paesaggistico o rurale, mentre Leopardi stesso definì queste poesie come "espressione di sentimenti, affezioni, avventure storiche del suo animo".

L'innovazione contro la tradizione consiste appunto, La sera del dì di festa ne è un esempio, nell'associare linguaggio colloquiale, tematiche intime e autobiografiche e riflessioni interiori ai paesaggi descritti. I piccoli idilli sono spesso collegati ai grandi idilli o Canti pisano-recanatesi del 1829-31 in cui Leopardi ritorna, modificandoli, sui temi delle prime poesie adottando la forma della canzone libera. L'altra caratteristica principale dei piccoli idilli è invece l'adozione dell'endecasillabo sciolto, senza l'utilizzo della rima, che rompe totalmente con la tradizione della poesia italiana. Quando Leopardi scrive La sera del dì di festa è in corso il passaggio tra la letteratura classica o neoclassica e quella romantica. Pur non essendosi mai dichiarato dalla parte dei romantici, a causa delle scelte metriche e tematiche che compie, Leopardi è considerato uno dei maggiori poeti del romanticismo a livello mondiale.

Il discorso metaletterario è implicitamente presente nella Sera del dì di festa ed è sovrapposto alle note problematiche leopardiane dell'amore non ricambiato, della malattia, del dolore e della malinconia personale. Proprio nel carattere personale della disperazione si differenziano i piccoli idilli dai grandi, nei quali, dopo aver maturato nuove posizioni nelle Operette morali, Leopardi sosterrà che l'infelicità congenita è nel destino di ogni essere umano e non solo del proprio.

Tematico

La sera del dì di festa è un idillio composto di un'unica strofa in cui Leopardi man mano svela le sensazioni che egli prova nell'affacciarsi alla finestra a contemplare il cielo. L'apertura della lirica è un notturno (vv.1-10) in cui la quiete del paese illuminato dalla luna e dalla luce delle lampade che filtra attraverso le finestre è descritta secondo le immagini "vaghe e indifinite" care a Leopardi. Viene evocata la donna amata dal poeta, addormentata nella pace delle sue stanze nell'inconsapevolezza del sentimento ("piaga", v.10) provato per lei dall'autore. L'atmosfera iniziale è quindi sommamente poetica e carica di serenità e la tematica dell'amore non ricambiato tipica della poesia tradizionale.

Con la ripetizione del "Tu dormi" (v.11) Leopardi introduce il contrasto tra quel paesaggio astratto e immaginario e la propria situazione reale: solo nella propria stanza, malato e malinconico, egli si affaccia alla finestra e attraverso delle parole che egli attribuisce alla Natura stessa, che nella poesia leopardiana è matrigna e ingannatrice, che gli ha donato una giovinezza e un'intera vita di sofferenze (Leopardi soffriva di dolori reumatici e scoliosi), rivela il suo stato di eterna disperazione.

È importante sottolineare l'atteggiamento ironico di Leopardi verso se stesso, che a partire dai versi in cui è usata appunto la figura dell'ironia (vv.11-16) si trasforma man mano in una forma di riflessione e commiserazione della propria persona e del mondo. Dal v.17 il poeta indica il momento in cui egli pronuncia le proprie parole, ovvero la notte successiva a un giorno festivo, ed evoca i corteggiamenti e gli amori di cui probabilmente la ragazza starà sognando, confessando sarcasticamente di non aver mai neppure nutrito la speranza ("non già ch'io speri", v. 20) di poter essere da lei ricambiato. A partire da questo momento la tematica amorosa viene perciò abbandonata e Leopardi passa a riflettere sul proprio dolore personale di una giovinezza trascorsa nella sofferenza. Il canto solitario (v. 25) di un artigiano che rincasa dopo aver preso parte ai festeggiamenti dà il via a una lunga e complessa sezione in cui il pensiero del poeta si dipana. L'oggetto della questione è il tempo che, giorno dopo giorno, spazza via tutte le cose umane. Il suo fluire è espresso in diverse contrapposizioni tra presente e passato: la sera presente rispetto al giorno festivo trascorso, il tempo presente rispetto alle epoche storiche passate, il momento che il poeta sta vivendo rispetto alla sua infanzia. Nell'evocare i fasti e i trionfi dell'Antica Roma attraverso tre domande retoriche (vv. 33-38), Leopardi utilizza immagini e lessico tipici della poesia latina o italiana neoclassica: egli sta implicitamente alludendo anche al dibattito in corso tra i classicisti e i romantici in quegli anni. Rispondendo "Dovunque c'è pace e silenzio / e il mondo intero riposa e di loro ormai non si parla più" (vv.38-39), riferendosi all'Impero Romano, egli vuole insieme prendere posizione per le innovazioni realistiche della poesia romantica ed esprimere nuovamente il concetto legato al tempo che avanza facendo polvere anche delle cose più grandi.

I versi conclusivi (vv.40-47) contengono infine uno straziante ricordo suscitato dal canto dell'artigiano che va man mano allontanandosi dalla finestra del poeta. Già dall'infanzia egli aveva passato notti insonni e disperate, commovendosi al suono della voce dell'uomo che passava sotto la sua finestra cantando.

Stilistico

La sera del dì di festa si presenta come un blocco unico di endecasillabi sciolti ed è stato spesso giudicato disorganico. La forma metrica scelta ristruttura la disposizione tradizionale dell'idillio eliminando la rima e introduce tematiche personali e tratta dalla vita reale dell'autore. Tuttavia, è possibile individuare un'evidente struttura circolare che parte dal notturno iniziale e si conclude nell'angosciante notturno evocato nel ricordo degli ultimi versi. Il lessico scelto da Leopardi è generalmente aulico e ricco di quelle parole poetiche "vaghe e indefinite" tipiche della sua poesia, ma vi è un contrappunto rappresentato da figure retoriche come l'ironia che rompono l'atmosfera sognante e incantata e riportano in scena l'"arido vero" che causa la disperazione del poeta.

Il ritmo e la musicalità della poesia, come spesso accade in Leopardi, sono al servizio del tema principale di cui il componimento tratta. Ne La sera del dì di festa è frequente l'utilizzo di enjambement (vv. 3-4; vv. 8-9; vv. 11-12; vv. 14-15; vv. 25-26; vv. 30-31; vv. 31-32; vv. 33-34; vv. 34-35; vv. 35-36; vv. 38-39) e polisindeti (vv. 1-3: "Dolce e chiara è la notte e senza vento/ e quieta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna e di lontan rivela..."; vv. 9-10: "e non ti morde/ cura nessuna e già non sai né pensi"; vv. 22-23: "e qui per terra/ mi getto e grido e fremo"; vv. 35-36: "e il grande impero/ di quella Roma, e l'armi, e il fragorio)". Il senso dell'insistenza su queste figure retoriche, che causano un andamento lento e regolare del ritmo, sta nel collegamento che Leopardi vuole porre con l'atmosfera di quiete notturna in cui la scena si situa e soprattutto con la descrizione dello scorrere regolare e tranquillo ma inesorabile del tempo, che disfa tutte le vanità umane.


Confronti


Il critico Blasucci sostiene che, come per il "dolce naufragar in questo mare" che chiude L'infinito, lirica che Leopardi scrisse negli stessi anni, si verifichi nella conclusione de La sera del dì di festa una sorta di catarsi: la considerazione che tutto passa, le gioie come i dolori, consola la disperazione, trasformandola quasi in un desiderio del proprio destino di annullamento. Questa lirica è probabilmente una delle più rappresentative della poesia leopardiana poiché contiene molti dei temi che l'autore tratterà poi successivamente facendo evolvere il proprio pensiero. È tipica dei piccoli idilli, componimenti che Leopardi scrive in età giovanile, la considerazione che il poeta ha della propria infelicità, destino che la natura matrigna ha destinato a lui solo e non all'intero genere umano. Nel corso degli anni il poeta cambierà la propria visione e nel grande idillio Canto notturno di un pastore errante dall'Asia affronterà proprio questo tema. Nella lirica un pastore si rivolge alla luna – situazione notturna simile alla Sera del dì di festa – e inizia la propria riflessione dicendo:

100. Questo io conosco e sento,
101. che degli eterni giri,
102. che dell'esser mio frale,
103. qualche bene o contento
104. avrà fors'altri, a me la vita è male.

Ma poi la conclude con i versi finali:

139. O forse erra dal vero,
140. mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
141. forse in qual forma, in quale
142. stato che sia, dentro covile o cuna,
143. è funesto a chi nasce il dì natale.

(Solo questo io sento e so di certo: che delle eterne rotazioni dell'universo o del mio essere fragile, qualche bene o gioia avranno forse gli altri, per me la vita è sofferenza. [...] O forse il mio pensiero si sbaglia riguardo al destino degli altri esseri umani: qualunque sia lo stato in cui avviene, in un giaciglio o in una culla, per chi nasce quello della nascita è un giorno di disgrazia.)

Vediamo appunto qui, come nelle Operette morali e in tutti i grandi idilli, che Leopardi considera nella sua produzione più tardiva la condizione di infelicità propria di ogni essere umano.

Un'altra lirica simile per contenuto alla Sera al dì di festa è Il sabato del villaggio, in cui l'autore evoca l'atmosfera spensierata e gioiosa che ragazzi, contadini e artigiani vivono nel giorno precedente a quello festivo. Leopardi paragona quella gioia alla spensieratezza della gioventù che verrà poi cancellata dalle verità dell'età adulta. Il parallelismo tra la notte di vigilia e quella della festa ormai giunta a termine è rintracciabile nell'immagine ai vv. 28-42:

28. e intanto riede alla sua parca mensa,
29. fischiando, il zappatore,
30. e seco pensa al dì del suo riposo.
31. Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
32. e tutto l'altro tace,
33. odi il martel picchiare, odi la sega
34. del legnaiuol, che veglia
35. nella chiusa bottega alla lucerna,
36. e s'affretta, e s'adopra
37. di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
38. Questo di sette è il più gradito giorno,
39. pien di speme e di gioia:
40. diman tristezza e noia
41. recheran l'ore, ed al travaglio usato
42. ciascuno in suo pensier farà ritorno

(nel frattempo fa rientro (riede) fischiettando a casa per il suo pasto frugale (parca mensa) il contadino e pensa tra sé e sé (seco pensa) al prossimo giorno di riposo. Poi, quando intorno ogni altra luce (face) è spenta, e tutto il resto è in silenzio, senti il rumore del martello che picchia e della sega del falegname che resta sveglio, nella bottega chiusa illuminata da una lucerna, e si affretta e lavora sodo per finire in tempo il proprio lavoro prima che sorga il sole. Dei sette giorni della settimana il sabato (questo) è il più felice, pieno di gioia e speranza: domani alla stessa ora (domenica sera) torneranno la noia e la tristezza, e tutti ricominceranno a pensare al proprio consueto lavoro.)

Le immagini del contadino e del falegname che non vedono l'ora di godersi il meritato riposo fanno il paio con quella dell'artigiano che rincasa della Sera del dì di festa. Questo personaggio sta appunto concludendo la propria giornata e il suo canto festivo va pian piano spegnendosi (Leopardi utilizza non a caso il termine "moriva" (v.45)) nella notte di angoscia che precede il giorno di lavoro.


Domande e Risposte


A quale sezione dei Canti appartiene La sera del dì di festa?
La lirica appartiene ai piccoli idilli, scritti tra il 1819 e il 1821.

Qual è il tema principale del componimento?
Il tema principale del componimento è lo scorrere inesorabile del tempo che cancella tutte le cose umane.

Qual è la forma metrica della poesia?
La sera al dì di festa è un idillio in endecasillabi sciolti.

A chi si rivolge formalmente il poeta?
Il poeta si rivolge a una ragazza addormentata di cui è innamorato.

Chi si rivolge al poeta con queste celebri parole: ―— A te la speme / nego — mi disse, — anche la speme; e d'altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. —"?
A rivolgersi con questi versi al poeta è la natura utilizzando il discorso diretto.

Cosa indica il famoso chiasmo ai vv. 30-32: "è fuggito/ il dì festivo, ed al festivo il giorno/ volgar succede"?
Il chiasmo indica il passare lento, regolare ma inarrestabile del tempo e della vita.

Fonti: libri scolastici superiori

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