Daniel Clement Dennett - Fama effimera


Immagine Daniel Clement Dennett
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Potrebbe sembrare incredibile pensare che l'io non esista realmente e che la coscienza sia solo un'illusione. Tuttavia, è proprio questa l'idea che Dennett cerca di sostenere. Egli sostiene che il concetto di coscienza sia un artefatto linguistico e culturale, privo di un corrispettivo reale nel cervello umano. Secondo Dennett, nel cervello si verificano costantemente innumerevoli eventi ma non esiste un dirigente o un sistema centrale che li coordina. Non c'è nemmeno un centro della coscienza, ovvero un'area specifica del cervello che rende coscienti le informazioni che elabora. Resta comunque il fatto che siamo coscienti di alcune cose e di altre no: se non esiste una specifica area della coscienza che rende coscienti certi eventi cerebrali, come si spiega che solo una piccola parte delle informazioni elaborate dal cervello diventa cosciente?

Dennett propone che alcuni contenuti diventano coscienti in maniera simile a come certe persone diventano famose: ciò che conta è l'impatto del loro debutto, ad esempio, in televisione. Ciò che conta è la "capacità di creare echi" dell'evento, ossia la sua capacità di essere richiamato alla mente e di riverberare. Secondo Dennett, l'emergere alla coscienza di certi contenuti avviene perché questi vengono elaborati più frequentemente e producono più effetti rispetto ad altri, coinvolgendosi in diversi processi. La capacità di rivivere o richiamare contenuti è, per Dennett, la caratteristica più importante della coscienza, quella che meglio definisce le sue proprietà. Questa abilità di replicare eventi nella nostra mente è il risultato di un'abitudine appresa all'interno di una certa cultura. In questo senso, la coscienza umana è un'eredità culturale, che esiste solo nelle auto-narrazioni che ci raccontiamo.


Lettura


Questa teoria proviene da quello che nel 1991 chiamavo Modello delle Molteplici Versioni e, più recentemente, modello della «fama nel cervello» (o della «celebrità cerebrale»). L'idea base è che la coscienza sia più simile alla fama che alla televisione; essa non è uno speciale «mezzo di rappresentazione» interno al cervello nel quale gli eventi veicoli di contenuto devono essere «trasdotti» per poter diventare coscienti. È piuttosto una questione di eventi veicoli di contenuto nel cervello che ottengono qualcosa di simile alla fama, in competizione con altri eventi cercatori di fama (o solo potenzialmente scopritori di fama).

Ovviamente, la coscienza non può essere, strettamente parlando, la fama all'interno del cervello, in quanto essere famosi significa essere un oggetto intenzionale condiviso nella mente cosciente di molte persone. Benché il cervello sia utilmente visto come composto da orde di demoni (o homunculi), se immaginassimo questi ultimi essere au courant di quello di cui avrebbero bisogno per elevare alcuni dei loro confratelli alla celebrità cerebrale, finiremmo per dotare queste componenti subumane di troppa psicologia umana – innescando, naturalmente, un evidente regresso all'infinito nel modello assunto come teoria della coscienza. La minaccia di regresso all'infinito può essere sventata tramite il ricorso a un metodo collaudato, che consiste non nell'abbandonare l'idea base, ma nell'ammorbidirla. Finché i vostri homunculi saranno più stupidi e ignoranti dell'agente intelligente che compongono, l'operazione di nidificare homunculi all'interno di homunculi può arrivare a un punto finale, raggiungendo il livello più basso in cui vi sono agenti così modesti da poter essere rimpiazzati da macchine.

Cosi la coscienza, più che alla fama, assomiglia all'influenza – una specie di potere «politico» relativo detenuto nei processi che competono per il controllo del corpo. In alcune oligarchie, forse, il solo modo di avere peso politico è di essere conosciuto dal Re, dispensatore di tutti i poteri e privilegi. I nostri cervelli sono più democratici, se non addirittura alquanto anarchici. Nel cervello non esiste un Re, un Osservatore Ufficiale del Programma della Televisione di Stato o un Teatro Cartesiano, ma vi sono parecchie differenze evidenti nel peso politico esercitato dai contenuti nel corso del tempo. Quello che una teoria della coscienza ha bisogno di spiegare è come alcuni, relativamente pochi, contenuti giungano ad avere questo potere politico, mentre la maggior parte degli altri, dopo aver profuso un modesto apporto nei progetti in corso del cervello, svanisce nell'oblio.

Perché deve essere questo il compito di una teoria della coscienza? Perché è proprio questo che gli eventi coscienti fanno. Essi si trattengono, monopolizzando il tempo in cui sono «sotto le luci della ribalta». Non possiamo, comunque, accontentarci di porre la domanda in questa maniera. Non esistono letteralmente proiettori di attenzione, quindi dobbiamo spiegare con altri termini questa seducente metafora, illustrando i poteri funzionali del catturare l'attenzione senza presupporre una singola fonte in grado di fornire l'attenzione. Questo è il significato di quella che ho chiamato la Domanda Difficile: E Poi Cosa Succede? Si possono postulare delle attività in una struttura neurale o in un'altra come condizione necessaria e sufficiente per la coscienza, ma ci si deve allora assumere l'onere di spiegare perché quelle attività assicurino il potere politico agli eventi coinvolti.

L'attrazione dell'idea di un medium speciale della coscienza non è semplicemente una persistente allucinazione. Né è del tutto vana, come possiamo vedere se spingiamo l'analogia con la fama un poco più avanti. La fama – nel mondo, non nel cervello – non è più quella che era un tempo. L'avvento dei nuovi mezzi di comunicazione ha, infatti, radicalmente modificato la natura della fama, e del potere politico, nel nostro mondo sociale, e qualcosa di analogamente interessante potrebbe essere successo nel cervello. Questa, in ogni caso, è la mia proposta speculativa. Come ho argomentato innumerevoli volte, essere nella coscienza non è come essere in televisione: si potrebbe andare in televisione ed essere visti da milioni di spettatori, e nonostante questo non essere famosi, poiché il debutto televisivo non ha avuto il giusto seguito. Similmente, non vi è alcuna area speciale nel cervello dove la rappresentazione è di per sé sufficiente per la coscienza: è sempre il seguito che fa la differenza. (E Poi Cosa Succede?)
La mia fonte d'ispirazione per l'analogia con la fama nel cervello è stata, ovviamente, l'affermazione di Andy Warhol: «Nel futuro, ognuno avrà il suo quarto d'ora di celebrità».

Quello che Warhol genialmente catturò in questa battuta fu la reductio ad absurdum di certi (immaginari) concetti di fama. Sarebbe vera fama quella? Warhol ha descritto un mondo logicamente possibile? Se ci soffermiamo a riflettere con maggiore attenzione del solito vediamo che qualcosa è stato tirato oltre il punto di rottura. È vero che, grazie ai mass media, la fama può essere attribuita a un cittadino anonimo quasi istantaneamente (viene alla mente Rodney King) e che con la stessa velocità, grazie alla volubilità dell'attenzione pubblica, essa può evaporare, ma l'esagerazione retorica data da Warhol di questo aspetto ci porta all'assurdità del Paese delle Meraviglie. Non abbiamo ancora visto un esempio di qualcuno diventato famoso esattamente per soli quindici minuti, e mai lo vedremo. Consideriamo alcuni personaggi che sono stati visti per soli quindici minuti o anche meno da centinaia di milioni di persone e dopo – diversamente da Rodney King – sono stati assolutamente dimenticati. Parlare qui di fama significherebbe abusare del termine (sì, un «linguaggio naturale» si modifica, ed è una buona cosa, se fatta con accortezza). Se ciò non vi sembra ovvio concedetemi allora di alzare la posta: può una persona diventare famosa per cinque secondi (non semplicemente seguita da milioni di occhi, ma famosa)? Vi sono, di fatto, centinaia, se non migliaia, di persone che giornalmente vengono viste, per pochi secondi, da milioni di persone. Consideriamo un servizio lanciato in onda dal telegiornale della sera che presenta la storia dell'approvazione di un nuovo farmaco, dove un dottore completamente anonimo sia visto (da milioni di spettatori) inserire una siringa ipodermica nel braccio di un paziente assolutamente sconosciuto: il dottore è sicuramente andato in televisione, ma non per questo è diventato famoso!

Molti filosofi hanno abboccato all'amo della mia domanda retorica offrendo controesempi alla mia implicita affermazione sul periodo necessario per diventare famosi. Ecco come qualcuno può essere famoso per quindici secondi: egli va su una TV internazionale e dopo avere affermato di essere pronto a distruggere il nostro pianeta porta a termine la sua minaccia. Oh, mi hanno colto in fallo! Notate però che l'esempio invece di essere una smentita della mia tesi porta completamente acqua al mio mulino. Esso, infatti, attira l'attenzione sull'importanza del normale seguito degli eventi: il solo modo per diventare famosi in un tempo breve è distruggere completamente quel mondo nel quale riecheggerebbe la fama. E se qualcuno volesse cavillare sul fatto che si tratti o no di vera fama, potremmo chiudere la questione ricorrendo a un'estensione dell'esperimento mentale. Supponiamo che il nostro antieroe prema il bottone e... dannazione, non avviene alcuna esplosione atomica! E Poi Cosa Succede? Il mondo sopravvive, e in esso possiamo riscontrare se la fama ha il suo normale seguito o meno. Nel secondo caso, la nostra conclusione sarebbe, col senno di poi, che la nostra proposta di un candidato alla fama era semplicemente sbagliata, a dispetto dell'ampia diffusione della sua immagine. (Forse nessuno guardava o faceva attenzione a quello che vedeva.) Il punto importante dell'analogia è che la coscienza, come la fama, è un fenomeno che ricade nel funzionalismo: il bello è bello in quanto fa bene quello che deve fare.


Guida alla lettura


1) Esiste un'area cerebrale della coscienza? Ti sembra che Dennett argomenti, in questo brano, la sua risposta a questa domanda?
Secondo il testo, Dennett sostiene che non esiste un'area specifica nel cervello dedicata alla coscienza. Egli afferma che la coscienza non è un "mezzo di rappresentazione" interno al cervello, piuttosto un fenomeno emergente dalle interazioni e dai processi che avvengono nel cervello stesso.

Dennett paragona la coscienza alla fama, argomentando che non esiste un centro o un "Re" nel cervello che governa la coscienza. Invece, la coscienza emerge da eventi cerebrali che riescono a ottenere un certo "potere politico" all'interno dei processi del cervello. L'attenzione non è fornita da una singola fonte ma è distribuita attraverso una serie di processi che competono tra loro.

In sintesi, Dennett argomenta chiaramente nel testo che non c'è un'area specifica della coscienza nel cervello, piuttosto una rete di processi interattivi che determinano quali contenuti diventano coscienti.

2) Qual è, secondo Dennett, il problema che una teoria della coscienza è chiamata a spiegare?
Secondo Dennett, il problema che una teoria della coscienza è chiamata a spiegare è come mai alcuni contenuti cerebrali giungano ad avere una sorta di "potere politico" nel cervello, diventando coscienti, mentre la maggior parte degli altri contenuti svanisce nell'oblio. In altre parole, una teoria della coscienza deve spiegare perché alcuni eventi cerebrali riescono a monopolizzare l'attenzione e a essere ricordati, mentre altri no. Questo problema è centrale perché gli eventi coscienti sono quelli che si trattengono, monopolizzando il tempo in cui sono sotto le luci della ribalta, senza che esista letteralmente una singola fonte di attenzione o una specifica area del cervello che renda coscienti certi eventi.


Guida alla Comprensione


1) Che cosa vuol dire che la coscienza è «più simile alla fama che alla televisione»?
Secondo Dennett, la coscienza è "più simile alla fama che alla televisione" perché non esiste un singolo "mezzo di rappresentazione" nel cervello che rende gli eventi coscienti, come la televisione che trasmette immagini a milioni di spettatori. Invece, la coscienza funziona come la fama, dove alcuni eventi cerebrali "diventano famosi" attraverso un processo di diffusione e riverberazione. Questo processo avviene quando certi contenuti sono elaborati più spesso e producono più effetti rispetto ad altri, creando una sorta di "eco" nella mente. Quindi, mentre la televisione rappresenta un mezzo diretto di trasmissione, la fama rappresenta un fenomeno emergente che dipende dall'interazione complessa di vari fattori nel tempo.

2) In che modo Dennett si sbarazza dell'obiezione secondo cui si possono fare esempi di «fama effimera» (per esempio, di persone che sono state famose per soli 15 secondi)?
Dennett si sbarazza dell'obiezione sulla «fama effimera» spiegando che anche se una persona può ottenere un'attenzione intensa e breve, questo non significa che si tratti di vera fama. Egli afferma che la vera fama richiede un seguito e un'eco nel tempo. Utilizza l'esempio di qualcuno che minaccia di distruggere il pianeta in una trasmissione televisiva internazionale: se il mondo fosse distrutto, non ci sarebbe nessuno a ricordare l'evento, quindi la fama non potrebbe durare. Se la minaccia non si concretizzasse, l'evento perderebbe comunque importanza nel tempo, dimostrando che la vera fama deve avere un seguito continuo. Quindi, la fama momentanea non contraddice la sua teoria, anzi, la rafforza sottolineando l'importanza del seguito degli eventi.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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