Parafrasi e Analisi: "Canto XV" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XV dell'Inferno di Dante Alighieri si colloca nel terzo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio, la natura e l'arte, in particolare i sodomiti. Questo canto si caratterizza per la profonda intensità emotiva e per il dialogo carico di rispetto e affetto tra Dante e un'anima dannata, attraverso cui il poeta esplora tematiche personali e universali. Si intrecciano qui riflessioni sulla memoria, sull'onore, sull'eredità intellettuale e morale, e sul rapporto tra maestro e discepolo, offrendo una pausa quasi intima nella narrazione aspra e severa dell'Inferno. L'ambientazione, dominata dal paesaggio arido e dalle fiamme pioventi, diventa lo sfondo simbolico di un incontro carico di significati umani e letterari.


Testo e Parafrasi


Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov'era,
perch'io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: "Qual maraviglia!".

E io, quando 'l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: "Siete voi qui, ser Brunetto?".

E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia".

I' dissi lui: "Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco".

"O figliuol", disse, "qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent'anni
sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia.

Però va oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni".

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com'uom che reverente vada.

El cominciò: "Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?".

"Là sù di sopra, in la vita serena",
rispuos'io lui, "mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand'ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle".

Ed elli a me: "Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;

e s'io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent'è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta".

"Se fosse tutto pieno il mio dimando",
rispuos'io lui, "voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;

ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo.

Tanto vogl'io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra".

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: "Bene ascolta chi la nota".

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.

Ed elli a me: "Saper d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio".

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.
Proseguiamo ora sopra uno dei due argini del Flagetonte;
Il vapore che il ruscello sprigiona fa da ombra agli argini,
salvando essi e l'acqua dal fuoco.

Erano simili agli argini eretti dai Fiamminghi tra Wissand e
Bruges, temendo che la furia del mare si avventi contro
di loro, per fare da schermo al mare, così da tenerlo lontano.

e quasi simili a quelli che i padovani erigono lungo il Brenta,
per proteggere le loro ville ed il loro castelli dalle inondazioni,
prima che la Carinzia, dove il fiume ha origine, senta il caldo della buona stagione:

quegli argini infernali era fatti allo stesso modo,
benché non fossero stati fatti né tanto alti né tanto massicci
dal loro architetto, chiunque egli fosse stato.

Ci eravamo già tanto allontanati dalla selva dei suicidi
che io non avrei più potuto vedere dove essa fosse,
anche se mi fossi voltato indietro,

quando incontrammo una schiera di anime
che venivano verso di noi lungo l'argine, e ciascuna
di loro ci guardava fisso come si è solito la sera

guardarsi l'un l'altro sotto la luna nuova;
ed aguzzavano lo sguardo verso di noi
come lo aguzza il vecchio sarto verso la cruna per infilare.

Mentre venivo adocchiato in questo modo da quella schiera,
fui riconosciuto da uno spirito, che mi afferrò
il lembo dell'abito e gridò: "Che sorpresa!"

Ed io, quando vidi che allungava il suo braccio verso di me,
fissai lo sguardo sulle sue sembianze tutte bruciacchiate,
così che il suo volto abbrustolito non impedì

alla mia mente di riconoscerlo;
piegando la mia mano verso la sua faccia,
risposi: "Siete proprio voi, qui, il famoso Brunetto Latini?!?"

E lui a me: "Figliolo mio, non ti dispiaccia
se il tuo vecchio maestro Brunetto Latini ritorna un poco
indietro insieme a te e lascia per un po' la fila di dannati."

Io dissi a lui: "Vi prego anzi di farlo, per quanto posso;
e se volete anche che mi fermi un poco con voi, lo farò
volentieri, purché me lo consenta costui, col quale vado."

Disse allora Brunetto: "Oh figliolo, chiunque di questa schiera
si arresti anche per un solo momento, è condannato a
rimanere poi immobile per altri cent'anni, senza potersi proteggere con le mani dal fuoco quando gli cade addosso.

Perciò continua a camminare: io proseguirò al tuo fianco;
poi raggiungerò nuovamente la mia schiera,
che va piangendo la sua eterna pena."

Io non osavo scendere dall'argine
per camminare a pari con lui; tenevo però la testa bassa
in segno di reverenza nei suoi confronti.

Cominciò lui a dire: "Che è la tua fortuna o quale il disegno
divino che ti conduce quaggiù prima del tuo ultimo giorno?
E chi è costui che ti fa da guida, mostrandoti la via?"

"Lassù nel mondo dei vivi, nella mia vita serena",
risposi a lui, "mi sono smarrito in una valle,
prima di aver raggiunto la mia piena virilità.

Solo ieri mattina sono riuscito a lasciarmi alle spalle quella
valle: mi apparve allora questo spirito, mentre ero sul punto di
tornarci, e mi riconduce ora a casa lungo questo cammino."

E Brunetto a me: "Se tu continuerai a seguire la tua stella
(Gemelli), non potrai non raggiungere il porto
della gloria immortale, stando a quanto vidi in te nella bella vita di lassù.

e se io non fossi morto così presto,
vedendo il cielo tanto benevolo nei tuoi confronti,
ti avrei dato molto volentieri il mio aiuto nella tua riuscita.

Ma quel popolo ingrato e maligno di Firenze,
che anticamente discese da Fiesole, e si dimostra ancora oggi
duro e ruvido come il monte, da cui si calò, ed i suoi sassi,

ti sarà nemico, come riconoscenza per il tuo far bene;
e ciò è naturale, perché tra i sorbi, dai frutti acerbi,
al fico non conviene far maturare i suoi dolci frutti.

Una antica proverbio chiama "ciechi" i fiorentini;
sono gente avara, invidiosa e superba:
levati di dosso ogni loro male costume.

La tua fortuna ti riserva tanto onore, che l'una e l'altra fazione
dei Guelfi desidererà ardentemente averti tra loro;
ma la tanto bramata erba, starà lontana da quei caproni.

Quelle bestie discese da Fiesole si nutrano di sé stesse,
si mangino tra loro, ma non osino toccare la pianta buona,
se ancora qualcuna riesce a germogliare nel loro letame,

ed in cui rivive il santo seme
di quei romani che rimasero dopo che
fu edificata Firenze, ora nido di tanta malvagità d'animo."

"Se fosse stato esaudita la mia richiesta a Dio",
risposi io a lui, "voi non sareste stato ancora
cacciato dal mondo dei vivi;

perché ho ancora fissa nella memoria, e mi addolora ora
vederla qui, la cara e buona immagine paterna
di voi, quando lassù nel mondo, di giorno in giorno,

mi insegnavate come rendere immortale la propria fama:
e quanto io sia riconoscente nei vostri confronti, mi conviene
testimoniarlo, lodandovi, fintanto che sarò in vita.

Mi annoto ciò che avete predetto riguardo alla mia vita,
e lo aggiungerò ad altre analoghe predizioni per farmelo
poi spiegare dalla donna, Beatrice, che saprà dirmi il loro vero senso, se riuscirò ad arrivare a lei.

Voglio solo che voi sappiate,
purché riesca a conservare integra la mia coscienza,
che sono pronto ad ogni rovescio della Fortuna.

Non è nuovo alle mie orecchie il prezzo di tali tristi presagi:
ma la ruota della Fortuna giri pure come le piace
ed il villano usi pure la sua zappa. Non me ne importa nulla!"

Il mio maestro allora voltò indietro il capo
dal lato destro e mi guardò fisso;
poi disse: "Fa bene chi ascolta le tue parole e se le annota!"

Non interrompo tuttavia il discorso iniziato
con Brunetto e gli domando chi sono,
tra i suoi compagni, quelli più famosi e di più alto grado.

Mi rispose: "Conviene che tu abbia notizie di alcuni di loro;
degli altri è sicuramente meglio non parlare,
perché non avrei tempo a sufficienza per dirti tutto.

Sappi quindi che tutti costoro furono chierici
e grandi letterati, persone di grande fama, che in vita
commisero lo stesso peccato di disonestà contro la natura.

In quella schiera disgraziata c'è il grammatico Prisciano
ed anche il giurista Francesco d'Accorso; e avresti potuto
anche vederci, se proprio desideravi vedere una tigna,

colui, Andrea dei Mozzi, che dal Papa, servo dei servi, fu
trasferito da Firenze a Vicenza, dove scorre il Bacchiglione, e
dove lasciò il proprio corpo con cui aveva abusato nei peccati.

Ti parlerei volentieri ancora; ma la mia compagnia ed il mio
discorso non possono prolungarsi oltre, dal momento che vedo
sollevarsi nuovo fumo nel sabbione.

Segno che sopraggiunge una nuova folla di dannati, con la quale non mi è permesso stare.
Ti raccomando il mio Tesoro, la mia fama,
grazie alla quale io ancora vivo in terra, e non ti chiedo altro."

Poi si volse di corsa verso la sua schiera, e sembrò uno di
quelli che a Verona partecipano alla gara del drappo verde;
sembrò tra quei corridori

colui che alla fine vince, non colui che perde.



Riassunto


Dante e Virgilio camminano lungo il corso del Flegetonte, protetti da una coltre di vapore che li ripara dalle fiamme che incessantemente cadono sul sabbione. Sul terreno infuocato, gruppi di anime dannate si muovono senza sosta: sono i sodomiti (vv. 1-21).

Tra i dannati, Dante riconosce con rispetto e affetto Brunetto Latini. Quest'ultimo non può fermarsi, ma i due riescono comunque a dialogare mentre camminano paralleli, separati dall'argine del fiume. Dante racconta del suo smarrimento nella selva oscura e del viaggio che sta compiendo sotto la guida di Virgilio (vv. 22-54).

Brunetto, profetizzando il futuro del poeta, gli annuncia che dovrà affrontare l'invidia e la malvagità dei suoi concittadini. Dante, ormai temprato, risponde con determinazione, affermando di essere pronto a resistere agli attacchi della sorte (vv. 55-99).

Infine, Brunetto menziona altri dannati famosi, come il grammatico Prisciano di Cesarea, il giurista Francesco d'Accorso e il vescovo Andrea de' Mozzi. Prima di congedarsi, raccomanda a Dante di prendersi cura della sua opera, il Trésor, e corre via per unirsi ad altre anime dannate (vv. 100-124).


Figure Retoriche


vv. 4-12: "Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa, fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; 6 e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il aldo senta: 9 a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro felli": Similitudine.
v. 16: "D'anime una schiera": Anastrofe.
vv. 17-19: "Ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna": Similitudine.
vv. 20-21: "E sì ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna": Similitudine.
vv. 43-45: "I' non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada": Similitudine.
v. 54: "A ca": Apocope.
v. 64: "Ti si farà, per tuo ben far, nimico": Iperbato.
v. 81: "Umana natura": Anastrofe.
v. 95: "Giri Fortuna la sua rota": Anastrofe.
v. 108: "D'un peccato medesmo al mondo lerci": Anastrofe.
v. 112: "Servo de' servi": Perifrasi. Per indicare Bonifacio VIII.
vv. 121-124: "Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde": Similitudine.
vv. 23-24, vv. 32-33, vv. 37-38, vv. 44-45, vv. 80-81, vv. 101-102: Enjambements.


Personaggi Principali


Brunetto Latini: il maestro di Dante
Brunetto Latini, nato nel terzo decennio del XIII secolo, era figlio del notaio Bonaccorso Latini, originario di una località nei pressi di Firenze chiamata Lastra. Dopo aver ricevuto una formazione in grammatica e retorica dal padre, intraprese la carriera notarile. Durante la sua vita, si distinse non solo come notaio ma anche come politico guelfo, ambasciatore, magistrato, filosofo e divulgatore della retorica, affermandosi come una figura di spicco nella Firenze del XIII secolo.

Nel 1260 Brunetto fu inviato in missione diplomatica presso Alfonso X di Castiglia per chiedere supporto contro Manfredi. Durante il viaggio di ritorno, apprese della sconfitta di Montaperti, dove i Guelfi fiorentini furono battuti dai Ghibellini. Questa notizia lo costrinse all'esilio in Francia.

Dopo la battaglia di Benevento, che vide i Ghibellini sconfitti e i Guelfi nuovamente al potere, Brunetto tornò a Firenze. Qui assunse il ruolo di notaio ufficiale del Comune e in seguito ricoprì incarichi sempre più prestigiosi. Nel 1275 fu console dell'arte dei giudici e notai e, nel 1284, negoziò la pace con Pisa e Lucca.

Brunetto morì nel 1294 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Firenze. Durante il suo esilio compose il Trésor, opera di grande valore culturale, e il Tesoretto, un poemetto didascalico e autobiografico in cui racconta un viaggio simbolico nell'oltretomba, anticipando alcuni temi della Divina Commedia.

Prisciano: Cesarea, Bologna o l'eretico Priscilliano?
Prisciano di Cesarea, vissuto nel VI secolo, fu un insegnante di latino e grammatico di Bisanzio. La sua opera più importante, l'Institutio de arte grammatica, suddivisa in 18 libri, divenne un riferimento fondamentale per lo studio della grammatica latina nel Medioevo. Dante, sicuramente, ne fece uso durante la sua formazione.

Un altro Prisciano, attivo nel XIII secolo a Bologna, insegnò grammatica nello Studio cittadino. Non è chiaro se Dante lo avesse conosciuto di persona, ma la presenza di Francesco d'Accorso nello stesso ambiente accademico potrebbe rendere plausibile questa ipotesi.

Un'ulteriore ipotesi collega il nome al vescovo Priscilliano, che nel IV secolo fondò un movimento eretico improntato al pauperismo. Fu esiliato e, infine, decapitato nel 383. Dante potrebbe aver voluto indicare simbolicamente, attraverso un nome, una categoria più ampia di figure legate all'eresia o alla trasgressione.

Francesco d'Accorso
Francesco d'Accorso studiò diritto all'Università di Bologna e vi insegnò fino al 1273. Successivamente, fu invitato da Edoardo I d'Inghilterra a insegnare a Oxford. Tornato a Bologna nel 1291, riottenne i beni confiscatigli durante la sua assenza per motivi politici.

Francesco aveva due fratelli, Cervottus e Guglielmo, anch'essi giuristi formati dal padre. Fu sepolto accanto al padre, e la sua tomba è ancora visibile a Bologna.

Andrea de' Mozzi: il vescovo fiorentino
Andrea de' Mozzi, fiorentino, fu canonico e poi vescovo di Firenze dal 1287. Nel 1295, a seguito di gravi contrasti con il clero fiorentino e di maldicenze sul suo conto, fu trasferito al vescovado di Vicenza, dove morì l'anno seguente.

Le malelingue che circolavano su Andrea furono alimentate da commentatori come Boccaccio e Benvenuto da Imola. Sebbene non vi siano prove certe dei peccati attribuitigli, il suo trasferimento da Firenze a Vicenza è stato interpretato come una misura punitiva.


Analisi ed Interpretazioni


L'Inferno di Dante: il canto XV e lo spazio narrativo
Il canto XV dell'Inferno di Dante si distingue per la complessità dello spazio descritto e per il forte legame emotivo tra il poeta e Brunetto Latini, figura centrale dell'episodio. Il racconto si svolge lungo gli argini pietrosi di un fiume, la cui atmosfera è resa vivida da immagini di fuoco e vapore che evocano un ambiente quasi surreale, come una gigantesca sauna. Il paesaggio è delineato con attenzione al ritmo e al suono delle parole, che alternano accenti e richiami fonetici per creare tensione. La descrizione si arricchisce di similitudini: dalle dighe dei Fiamminghi, che evocano il fuoco e la sua natura distruttiva, alle barriere costruite dai padovani lungo il Brenta, che riportano il quadro in una dimensione più familiare e domestica.

Un altro elemento ricorrente è lo sforzo visivo: Dante descrive il tentativo di percepire i dettagli nell'oscurità, riflesso nello sguardo dei dannati sodomiti, paragonati a un vecchio sarto che fatica a infilare il filo nella cruna dell'ago. Questo dettaglio crea un'atmosfera che unisce realismo e simbolismo, suggerendo un'attenzione intensa ma sterile da parte dei dannati, incapaci di scorgere la redenzione.

L'incontro con Brunetto Latini
Al centro del canto troviamo l'incontro tra Dante e il suo antico maestro, Brunetto Latini, figura di spicco nella Firenze medievale per la sua attività politica e intellettuale. L'incontro è carico di emozione e di contrasti. Dante, sorpreso, gli rivolge un rispettoso "voi", ma il suo stupore tradisce una punta di amarezza nel trovarlo in un luogo così degradato. Brunetto, da parte sua, manifesta affetto e ammirazione per il discepolo, sottolineando il legame speciale che li univa. Tuttavia, la condanna divina rimane implacabile, e il poeta non esita a collocarlo tra i dannati per il peccato di sodomia, una colpa che nella Firenze di Dante aveva un'eco di ambiguità più che di certezze.

La tensione emotiva è palpabile: da un lato, Dante esprime affetto per la figura paterna che Brunetto aveva rappresentato; dall'altro, la sua condanna è netta, confermando che la giustizia divina non fa sconti nemmeno agli uomini di grande valore. Questo dualismo si riflette anche nella descrizione della scena: Brunetto, camminando accanto a Dante ma a un livello più basso, costringe il poeta a guardarlo di traverso, un'immagine che sottolinea il rispetto ma anche la distanza morale che li separa.

La profezia e la critica a Firenze
Brunetto, nel corso del dialogo, preannuncia a Dante l'esilio dalla sua amata Firenze, descritto come il risultato dell'ingratitudine e dell'invidia dei suoi concittadini. L'invettiva contro Firenze è feroce: i fiorentini, dominati da avarizia, superbia e invidia, sono incapaci di apprezzare chi, come Dante, agisce con onestà politica e intellettuale. Questo tema è rappresentato attraverso immagini forti: Dante è paragonato a un "dolce fico" nato tra "lazzi sorbi", simbolo di dolcezza circondata da acidità e avversione.

Brunetto accusa Firenze di essere divisa tra due anime: una buona, discendente dagli antichi Romani, e una malvagia, di origine fiesolana, legata a rozzezza e inciviltà. Queste divisioni politiche e sociali, secondo Brunetto, spiegano l'odio che Firenze nutre verso Dante. Il poeta, tuttavia, risponde con dignità, accettando il destino imposto dalla Fortuna e dichiarando che la sua missione è guidata da principi morali più alti.

L'addio e l'immagine finale
L'episodio si conclude con un'immagine simbolica e amara: Brunetto si allontana correndo come un podista, riprendendo il suo cammino eterno tra i dannati. L'ultimo sguardo verso di lui racchiude l'amarezza di un legame spezzato, ma anche la consapevolezza che Dante proseguirà su un sentiero diverso, guidato da una luce divina che Brunetto, prigioniero di una visione terrena, non è in grado di comprendere.


Passi Controversi


Guizzante e Bruggia (v. 4) sono versioni italianizzate di Wissant e Bruges, due città fiamminghe molto frequentate dai mercanti fiorentini nel Duecento. La Carentana (alcuni manoscritti riportano Chiarentana) sembra riferirsi alla Carinzia, una regione da cui provengono le acque che alimentano il fiume Brenta, quando in estate si sciolgono le nevi. L'immagine nei vv. 18-19 è tratta dall'Aeneide di Virgilio (VI, 270 ss.). Il verbo "arrostarsi" (v. 39) potrebbe significare «ripararsi» o «schermirsi», ma potrebbe anche fare riferimento al movimento di un ventaglio fatto di frasche, alludendo al gesto di allontanare le fiamme.

Nel v. 51 Dante fa riferimento a un momento precedente ai 35 anni di età, indicando che il suo smarrimento nella selva oscura avvenne prima che la sua vita fosse piena. Il v. 52 suggerisce che sono passate circa 24 ore dall'inizio del viaggio, con l'alba che segna il 9 aprile (o 26 marzo). La "stella" citata al v. 55 potrebbe simboleggiare la giusta rotta verso la salvezza, ma alcuni interpretano che Dante stia facendo riferimento alla costellazione dei Gemelli, segno sotto il quale era nato. Secondo questa lettura, Brunetto potrebbe aver previsto il destino di Dante attraverso conoscenze astrologiche.

Nei vv. 61 ss., Dante fa riferimento alla leggenda che narra come Fiesole si ribellò a Roma sotto Catilina e fu distrutta, mentre Cesare fondò Firenze sulla riva dell'Arno, ospitando i superstiti di Fiesole. Secondo Dante, i Fiorentini più malvagi discenderebbero da questi Fiesolani. I "lazzi sorbi" (v. 65), un frutto aspro, sono usati come metafora per indicare che una persona onesta (come il dolce fico) non può vivere in una città corrotta come Firenze.

Il v. 67 fa riferimento a un detto popolare che considerava i Fiorentini "ciechi", incapaci di vedere le minacce che li circondano, come l'invasione di Totila o l'inganno dei Pisani. I Fiorentini sono descritti come avari, invidiosi e superbi (v. 68), con vizi simili a quelli già denunciati da Ciacco (Inf., VI, 74). Il "becco" al v. 72 potrebbe riferirsi sia al caprone che all'uccello, in entrambi i casi associato all'erba, intesa come lo strame del v. 73. I vv. 73-78 evocano la leggenda secondo cui Firenze sarebbe stata fondata dai Romani, e Dante si considerava discendente della nobiltà romana, distinguendosi così dalle classi più basse, rappresentate dai "Fiesolani".

La donna di cui si parla al v. 90 è chiaramente Beatrice, mentre nei vv. 95-96 Dante fa riferimento probabilmente a un proverbio, forse ispirato a un episodio raccontato nel Convivio (IV, 6), in cui un contadino trovò un tesoro seppellito in modo inaspettato. Con questa immagine, Dante sembra suggerire che la Fortuna può distribuire premi immeritati, come nel caso del contadino che trova un tesoro inaspettato. I vv. 110-114 parlano per allusioni di Andrea de' Mozzi, vescovo che fu trasferito da Firenze a Vicenza da Bonifacio VIII. Il v. 119 fa riferimento ai Li livres dou Trésor, un'opera enciclopedica scritta da Brunetto tra il 1262 e il 1266, mentre il "drappo verde" del v. 122 si riferisce al premio dato al vincitore del Palio di Verona.

Fonti: libri scolastici superiori

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