Parafrasi e Analisi: "Canto XVI" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XVI dell'Inferno segna un momento di riflessione e intensità emotiva all'interno del viaggio di Dante. Ambientato nel terzo girone del settimo cerchio, dove si trovano i violenti contro Dio, la natura e l'arte, il canto esplora temi profondamente legati alla degenerazione morale e politica della società. Qui, Dante incontra anime illustri e affronta questioni che uniscono il personale al collettivo, intrecciando memorie storiche, affetti umani e una critica feroce al degrado dei valori civili.

Questo canto si distingue per il tono solenne e la tensione tra passato e presente, rappresentata dai dialoghi con figure cariche di dignità ma intrappolate nel tormento eterno. In questo contesto, emerge la denuncia del declino morale e delle divisioni sociali, temi cari a Dante e centrali nella sua riflessione sul destino dell'umanità. Attraverso un linguaggio simbolico e visivamente potente, il poeta prepara il terreno per un cambiamento significativo nella narrazione, che culminerà nel successivo incontro con Gerione, emblema della frode.


Testo e Parafrasi


Già era in loco onde s'udìa 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,

quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro.

Venian ver' noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava».

Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.

A le lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e: «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.

E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».

Ricominciar, come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,

così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che 'n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.

E «Se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo,

la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
così sicuro per lo 'nferno freghi.

Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:

nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.

L'altro, ch'appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce».

S'i' fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;

ma perch'io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,

tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.

Di vostra terra sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.

Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».

«Se lungamente l'anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,

cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n'è gita fora;

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com'al ver si guata.

«Se l'altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!

Però, se campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere "I' fui'',

fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.

Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com'e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi.

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.

Come quel fiume c'ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;

così, giù d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell'acqua tinta,
sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa.

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.

Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,
sì come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Ond'ei si volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell'alto burrato.

'E' pur convien che novità risponda',
dicea fra me medesmo, 'al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio sì seconda'.

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!

El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra».

Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vòte,

ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l'àncora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.
Ero (era) ormai giunto nel punto [dell'argine] (loco) in cui si
udiva il rimbombo del ruscello (l'acqua) che cadeva nel cerchio
successivo (l'altro giro), simile al ronzio (rombo) delle api nelle arnie,

quando, da una schiera (torma) che procedeva sotto la pioggia
di fuoco del duro supplizio (martiro), si staccarono (si partiro)
insieme di corsa tre spiriti (ombre).

Venivano verso di noi e ciascuno di essi gridava: «Fermati (Sòstati)
tu che dal modo di vestire (ch'a l'abito) ci (ne) sembri
essere uno (alcun) della nostra crudele (prava) città».

Ahimè, quali piaghe, vecchie e recenti, prodotte (incese) dalle
fiamme, io vidi nelle loro membra! Mi recano ancora dolore
(men duol) solo (pur ch') a ricordarle.

La mia guida (dottor) si fermò rivolgendo la propria attenzione (s'attese)
alle loro grida; voltò lo sguardo (viso) verso di me e disse: «Fermati
(aspetta) ora, nei confronti di costoro è giusto (si vuole) essere cortesi.

E se non fosse per le fiamme (foco) che la natura del luogo fa
scendere (saetta), direi che la fretta dovesse convenire (stesse)
più a te che a loro».

Non appena (come) noi ci fermammo (restammo), essi (ei) ripresero il loro
consueto lamento (l'antico verso); e quando furono giunti presso di noi,
tutti e tre (trei) insieme formarono (fenno) un cerchio (rota).

Come sono soliti fare i lottatori (campion) nudi e unti,
studiando (avvisando) la presa più vantaggiosa (lor presa e
lor vantaggio) prima di colpirsi e ferirsi (battuti e punti),

così, con lo stesso movimento circolare (rotando), ciascuno (dei tre)
rivolgeva (drizzava) a me lo sguardo (visaggio), così che il loro collo
doveva fare un continuo movimento (vïaggio) contrario a quello dei piedi.

Uno di essi cominciò: «Se la misera condizione (miseria) di questo sabbione (loco
sollo = luogo cedevole) e il nostro aspetto annerito (tinto) e scorticato
(brollo) rende spregevoli (in dispetto) noi e le nostre richieste (prieghi),

la fama rimasta di noi (nostra) induca (pieghi) il tuo animo a
dirci chi sei tu, che ancora vivo calchi (freghi) i piedi
nell'Inferno senza timore di bruciarti (sicuro).

Costui, di cui mi vedi calpestare le orme, benché (tutto che)
vada nudo e scorticato (dipelato), fu di rango sociale (grado)
più alto (maggior) di quanto credi:

fu nipote della virtuosa (buona) Gualdrada; si chiamò Guido
Guerra e in vita si distinse (fece... assai) sia per virtù civili (col
senno) che militari (con la spada).

L'altro, che calpesta (trita) la sabbia (rena) vicino a me, è Tegghiaio Aldobrandi,
il cui consiglio (voce) avrebbe dovuto essere stato meglio ascoltato (dovrìa
esser gradita) a Firenze (nel mondo sù).

E io, che sono sottoposto al tormento (posto... in croce) insieme a loro, fui
Iacopo Rusticucci; e certo più di ogni altra cosa (più ch'altro) mi è
dannosa (mi nuoce) la moglie intrattabile (fiera)».

Se io fossi stato protetto (coperto) dal fuoco, mi
sarei gettato giù tra loro, e credo che il mio
maestro (dottor) l'avrebbe consentito (sofferto);

ma dal momento che mi sarei bruciato, la paura prese il
sopravvento (vinse) sul sincero sentimento (buona voglia) che mi
rendeva desideroso (ghiotto) di abbracciarli.

Poi cominciai: «La vostra condizione mi impresse (fisse) nell'animo (dentro)
non disprezzo (dispetto), ma un dolore (doglia) così intenso (tanta) che
dovrà passare molto tempo (tardi) prima che svanisca (si dispoglia) del tutto,

non appena (tosto che) la mia guida (segnor) mi disse parole per
le quali io pensai che venissero (verso di noi) persone tanto
meritevoli (tal gente) quali voi siete.

Io sono della vostra città (terra), e sempre (sempre mai) ascoltai
e riferii ad altri (ritrassi) con piacere (affezion) le vostre azioni
(ovra) e i vostri nomi onorati.

Lascio l'amarezza del peccato (lo fele) e mi dirigo (vo) verso la dolcezza del
bene (dolci pomi), promessa a me dalla mia guida (duca) veritiera (verace); ma
prima è necessario (convien) che io scenda (tomi) fino al centro dell'universo».

«Con l'augurio (Se) che tu possa vivere ancora a
lungo», rispose ancora quello spirito, «e che la
tua fama risplenda (luca) dopo la tua morte (dopo te),

dicci se i valori cortesi e le virtù morali (cortesia e valor) sopravvivono
(dimora) ancora, come solevano un tempo (sì come suole), nella nostra
città, o se l'hanno del tutto abbandonata (se n'è gita fora);

poiché Guglielmo Borsiere, che da poco tempo (per poco) è
tormentato (si duole) insieme a noi ed è laggiù con i suoi
compagni, ci affligge (ne cruccia) molto con le sue parole».

«Gli immigrati recenti (gente nuova) e le loro improvvise fortune
(sùbiti guadagni) hanno generato in te, Firenze, superbia (orgoglio) e sfrenatezza
(dismisura), così che già cominci a pagarne le conseguenze (già ten piagni)».

Così gridai a testa alta; e i tre, che recepirono queste parole
come (per) risposta, si guardarono l'un l'altro come si assiste
(guata) alla conferma di una dura verità (al ver).

«Se ti costa sempre come ora (l'altre volte) così poco», risposero tutti insieme,
«rispondere esaurientemente alle domande (il satisfare altrui), felice te se
sei in grado di parlare liberamente (a tua posta) con tanta franchezza (sì)!

Perciò, con l'augurio (se) che tu possa scampare (campi) dall'Inferno (d'esti luoghi
bui) e ritornare a vedere il cielo (le belle stelle), quando ti piacerà (gioverà)
rievocare il viaggio nell'Oltretomba (dicere "I' fui"),

fa in modo di parlare (fa che... favelle) di noi alla gente». Quindi sciolsero
(rupper) il cerchio (rota), e nel (a) fuggire le loro
gambe veloci (isnelle) sembrarono (sembiar) ali.

Non si sarebbe potuto (possuto) pronunciare (dirsi) un "amen"
così velocemente (tosto) come essi scomparvero (fuoro spariti);
per la qual cosa al maestro parve opportuno (parve) allontanarsi (partirsi).

Io lo seguivo e, dopo essere avanzati (iti) un poco, il fragore della
cascata ('l suon de l'acqua) era così vicino a noi che, se ci fossimo
parlati (per parlar), ci saremmo a malapena (a pena) uditi.

Come il fiume che per primo, dal Monviso verso
oriente (levante), nella parte sinistra dell'Appennino,
sfocia in mare (ha proprio cammino),

e che si chiama Acquacheta nella parte alta del suo corso (suso), prima (avante)
di scendere (divalli) in pianura (giù nel basso letto), e a Forlì non
si chiama più (è vacante = è privo) con quel nome,

rimbomba presso (là sovra) San Benedetto all'Alpe poiché
precipita (per cadere) con un unico salto (ad una scesa) là dove
(ove) dovrebbe (dovea) essere ricevuto (recetto) in moltissimi (salti) (mille);

così, giù da una parete (ripa) scoscesa, incontrammo (trovammo)
quell'acqua rossa (tinta) cadere fragorosamente (risonar), tanto che
avrebbe danneggiato l'udito (l'orecchia offesa) in brevissimo tempo ('n poc'ora).

Io portavo avvolta intorno ai fianchi (intorno cinta) una corda,
con la quale (e con essa) una volta pensai di catturare la lonza
dalla (a la) pelle screziata (dipinta).

Dopo (Poscia) averla completamente srotolata (da me sciolta),
così come mi aveva ordinato il maestro, gliela porsi (porsila)
raccolta a matassa (aggroppata e ravvolta).

Egli allora si volse verso destra e la gettò giù
nel profondo burrone (alto burrato) un po' lontano
(alquanto di lunge) dalla sponda.

"Qualcosa di straordinario (novità) deve (convien) certo (pur)
corrispondere (risponda)", dicevo tra me e me, "all'inconsueto (novo)
segnale (cenno) che il maestro segue con tanta attenzione (sì seconda)".

Ahi quanto devono (dienno) essere cauti gli uomini vicino alle persone che non
solo (pur) vedono (veggion) gli atti esteriori (l'ovra), ma, grazie al loro
acume (col senno), riescono a penetrare (miran) nei pensieri!

Egli mi disse: «Presto (Tosto) salirà (verrà di sovra) ciò che io attendo con
certezza e che tu immagini solo confusamente (il tuo pensier sogna): presto
dovrà (convien) rivelarsi ai tuoi occhi (viso).

L'uomo, finché può (puote), deve (de') sempre rifiutarsi dall'esprimere (chiuder
le labbra) quella verità (ver) che ha l'apparenza (faccia) di menzogna, poiché (però che)
essa lo farebbe sembrare bugiardo (fa vergogna) anche se è sincero (sanza colpa);

ma in questa occasione (qui) non posso tacerla; e in nome dei versi (note)
di questo poema (comedìa) – possano (se) non essere a lungo privi (vòte) di
favore presso il pubblico (di lunga grazia) –, ti giuro, lettore,

che io vidi salire (venir... in suso) attraverso quell'aria densa (grosso) e
scura, come se nuotasse (notando), una figura tale da impressionare
(maravigliosa) anche un animo intrepido (cor sicuro),

con lo stesso movimento con cui risale (torna) il marinaio (colui), che talvolta scende
sott'acqua (va giuso) per liberare (solver) l'ancora rimasta impigliata (ch'aggrappa)
in uno scoglio o in un altro ostacolo (altro) sul fondo marino (che nel mare è chiuso),

che stende in alto le braccia e raccoglie le gambe (da piè si rattrappa).



Riassunto


Incontro con altri sodomiti (vv. 1-27)
Continuando a percorrere il bordo di pietra che delimita il deserto infuocato, Dante e Virgilio raggiungono un punto in cui il fragore della cascata del Flegetonte si fa nettamente udibile. Qui si avvicina un nuovo gruppo di dannati, anch'essi sodomiti, che in vita si distinsero come importanti figure della politica e del comando militare. Tra loro, tre anime riconoscono Dante come fiorentino, notando i dettagli della sua veste, e si avvicinano correndo in cerchio attorno a lui, dato che la loro pena li obbliga a muoversi senza mai fermarsi. Mostrano chiaramente il desiderio di parlargli.

Colloquio con i tre fiorentini (vv. 28-63)
Virgilio suggerisce a Dante di accogliere con rispetto queste anime, meritevoli di considerazione nonostante la loro attuale condizione. Uno dei tre si fa portavoce: si presenta come Iacopo Rusticucci e indica i suoi compagni, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi. Sono uomini illustri della generazione precedente, conosciuti per aver dedicato le loro capacità al bene comune, dei quali Dante aveva già chiesto notizie a Ciacco nel cerchio dei golosi. A questo punto, Dante spiega loro la natura del suo viaggio e le motivazioni che lo spingono ad attraversare l'Inferno.

Le cause della corruzione di Firenze (vv. 64-90)
Quando Iacopo domanda se nella Firenze contemporanea esistano ancora cortesia e valore, Dante risponde con amarezza, criticando aspramente la decadenza della città. La Firenze attuale, spiega, è ormai corrotta dai nuovi arrivati provenienti dalle campagne e dai guadagni ottenuti troppo in fretta. Le sue parole suscitano dolore nei tre dannati, che però gli sono grati per la sincerità. Prima di congedarsi, lo pregano di mantenere vivo il loro ricordo nel mondo dei vivi, e poi si allontanano rapidamente.

L'arrivo di Gerione (vv. 91-136)
I due poeti riprendono il cammino e presto vengono sopraffatti dal rumore assordante del Flegetonte che si precipita nell'ottavo cerchio. Virgilio chiede a Dante di consegnargli la corda che porta legata attorno alla vita e, con gesto deciso, la lancia nel vuoto. Improvvisamente, una creatura spaventosa emerge dal profondo. Nuota nell'aria con movimenti strani e sinuosi: è Gerione, emblema della frode, che fa la guardia al cerchio successivo.


Figure Retoriche


v. 3: "Simile a quel che l'arnie fanno rombo": Similitudine.
v. 9: "Nostra terra prava": Perifrasi. Per indicare Firenze.
v. 14: "Volse 'l viso ver me": Allitterazione della V.
vv. 22-27: "Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, 24 così, rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che 'n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio": Similitudine.
v. 31: "La fama nostra": Anastrofe.
v. 39: "Fece col senno assai e con la spada": Anastrofe.
v. 47: "Gittato mi sarei": Anastrofe.
v. 49: "Brusciato e cotto": Endiadi.
v. 50: "Vinse paura": Anastrofe.
vv. 94-105: "Come quel fiume c'ha proprio cammino...sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa": Similitudine.
v. 110: "Duca": Perifrasi. Per indicare Virgilio.
vv. 133-136: "Come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n sù si stende, e da piè si rattrappa": Similitudine.
vv. 1-2, vv. 100-101: Enjambements.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto, suddiviso in due parti, affronta nella prima il colloquio di Dante con tre fiorentini illustri, mentre nella seconda anticipa l'arrivo di Gerione, il mostro che custodisce l'accesso alle Malebolge. Questi temi sono collegati da una profonda riflessione morale e politica che attraversa il Canto.

L'incontro con i tre nobili fiorentini
Nella prima parte, Dante incontra Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci, uomini di grande virtù e rettitudine, appartenenti alla Firenze antica. Questi tre gentiluomini, che avevano dedicato la loro vita al ben fare e all'amore per la patria, rappresentano il contrasto tra i valori nobili e cavallereschi del passato e la corruzione morale della Firenze contemporanea. La città è definita "terra prava", e Dante attribuisce la sua decadenza alla gente nova e ai sùbiti guadagni, un chiaro riferimento all'ascesa della borghesia mercantile, accusata di avidità e mancanza di ideali.

Il colloquio, dominato da toni di cortesia e rispetto reciproco, si distingue per il contrasto tra la dignità civile dei tre personaggi e la pena crudele che li tormenta nel settimo cerchio, dove i sodomiti sono puniti sotto una pioggia di fuoco. La loro sorte è una drammatica testimonianza dell'inevitabile condanna delle colpe terrene, ma non cancella la memoria delle loro virtù e del loro contributo alla società fiorentina. Dante stesso, pur riconoscendo il loro valore, sottolinea la propria distanza morale, esprimendo l'intenzione di abbandonare l'amaro della colpa per cercare dolci frutti spirituali.

La decadenza di Firenze
Il tema politico emerge con forza nel colloquio, ricollegandosi alle riflessioni già presenti nei canti di Ciacco (VI), Farinata (X) e Brunetto Latini (XV). Dante critica duramente la perdita dei valori di cortesia e rettitudine, simbolo della nobiltà feudale, a favore della sete di ricchezza e del degrado morale portati dalla nuova classe mercantile. Il poeta rimpiange la Firenze antica, caratterizzata da sobrietà, liberalità e senso della tradizione, virtù ormai scomparse. Questa denuncia si inserisce in una critica più ampia, che attraversa l'intera Commedia, contro l'avidità e l'usura, mali che corrompono non solo Firenze ma anche la Chiesa e la società del suo tempo.

L'attesa di Gerione
La seconda parte del Canto segna una transizione verso l'ottavo cerchio. Dante e Virgilio si trovano sull'orlo di un burrone, e qui si svolge un enigmatico rituale. Dante, su istruzione di Virgilio, scioglie la corda che gli cinge i fianchi e la porge al maestro, il quale la getta nel vuoto. Questo gesto richiama Gerione, il mostro ibrido simbolo della frode, che dovrà trasportarli oltre l'abisso. L'identificazione della corda con uno strumento simbolico di virtù, forse legato alla temperanza o alla giustizia, rimane oggetto di dibattito, ma il suo legame con Gerione e con la lonza del primo Canto è evidente.

L'attesa di Gerione è costruita con maestria narrativa: la creatura emerge lentamente dal buio, paragonata a un marinaio che riemerge dall'acqua, ma la sua descrizione completa viene rinviata al canto successivo, lasciando il lettore in sospeso e aumentando il senso di meraviglia e inquietudine. Questo momento segna non solo un passaggio geografico nell'Inferno, ma anche una svolta nella narrazione, introducendo il tema della frode come elemento centrale della seconda parte della Cantica.

Conclusione
Il Canto si sviluppa quindi su due livelli intrecciati: da un lato la riflessione politica e morale sulla decadenza di Firenze, incarnata dall'incontro con i tre nobili dannati, e dall'altro l'avvicinamento all'ottavo cerchio, preparato dall'arrivo di Gerione. Questi elementi si fondono in un'unica struttura narrativa, che unisce critica sociale e tensione simbolica, guidando il lettore verso le profondità dell'Inferno.


Passi Controversi


Al verso 20, l'espressione "l'antico verso" potrebbe riferirsi sia ai lamenti dei dannati che si levano nell'aria, sia al movimento delle mani con cui cercano di schermirsi dalle fiamme.

La similitudine dei versi 22-27 richiama probabilmente i lottatori dell'antichità, come quelli greco-romani, che, coperti d'olio e privi di vesti, si fissavano con intensità prima di iniziare il combattimento. In modo simile, i tre sodomiti osservano attentamente Dante, costretti però a voltare continuamente la testa a causa del movimento circolare imposto dalla loro pena.

Il termine sollo, presente al verso 28, significa "morbido" o "fragile", riferendosi alla consistenza della sabbia su cui camminano.

Al verso 37, viene menzionata la "buona Gualdrada", nonna di Guido Guerra. Era figlia di Bellincion Berti, citato nel Paradiso (XV, 112), e andò in sposa a Guido il Vecchio dei conti Guidi nel 1180.

Il verso 45 fa riferimento alla moglie di Iacopo Rusticucci, nota per il suo carattere difficile e ostile, una condizione che si dice abbia spinto il marito verso comportamenti considerati devianti.

L'espressione ritrassi e ascoltai (v. 60) può essere interpretata in due modi: potrebbe significare "ascoltai e poi ripetei" (un caso di hysteron pròteron, figura retorica in cui gli eventi sono descritti in ordine inverso) o "imparai ascoltando".

Nei versi 64 e 66, la congiunzione se esprime un desiderio: "possa tu...".

Guiglielmo Borsiere, menzionato al verso 70, era un personaggio fiorentino di cui si sa poco. Secondo Boccaccio, che lo include in una novella del Decameron (I, 8), potrebbe essere stato un uomo di corte, morto poco prima del 1300, come suggerisce Iacopo Rusticucci.

La similitudine dei versi 94-102 paragona il fragore del Flegetonte che si getta nell'abisso a quello dell'Acquacheta, cascata sull'Appennino tosco-emiliano. Al tempo di Dante, il fiume prendeva a valle il nome di Montone, sfociando nel mare Adriatico. I versi 101-102 alludono probabilmente al fatto che il fiume, a monte, si getta in un'unica cascata rumorosa, ma potrebbe frantumarsi in molte piccole cadute con minor frastuono.

La ripa discoscesa del verso 103 si riferisce al ripido precipizio che separa il settimo dall'ottavo cerchio.

Al verso 128, Dante definisce il proprio poema comedìa, come farà nuovamente al verso 2 del canto XXI. Le "note" di cui parla sono i versi stessi.

Infine, nei versi 133-136, Gerione viene descritto mentre risale lentamente attraverso l'aria, paragonato a un marinaio che si immerge per liberare un'ancora incagliata, risalendo poi verso la superficie con un movimento controllato e fluido per spingersi meglio.

Fonti: libri scolastici superiori

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