Parafrasi e Analisi: "Canto XVII" - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XVII dell'Inferno di Dante Alighieri affronta il tema della corruzione morale e della punizione legata a uno dei peccati più gravi: il simonismo. In questo canto, l'autore esplora le conseguenze del peccato che riguarda l'abuso della funzione religiosa per fini materiali, un tema che riflette le critiche di Dante alla Chiesa del suo tempo. Il Canto si inserisce nel contesto del VIII Cerchio, dove sono puniti i fraudolenti, e in particolare si concentra su coloro che, attraverso il peccato della simonia, hanno tradito la propria missione spirituale. La riflessione dantesca su questa tematica si intreccia con il suo desiderio di giustizia, denunciando la decadenza morale e l'ipocrisia dei potenti ecclesiastici, che si sono allontanati dalla vera fede.
Testo e Parafrasi
«Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!». Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: «Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca». Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena esperïenza d'esto giron porti», mi disse, «va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti». Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; è di qua, di là soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: «Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitalïano sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"». Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: «Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale; monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male». Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: «Gerïon, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai». Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui «Mala via tieni!», che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerïone al piè al piè de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. |
«Ecco il mostro (fiera) con la coda acuminata (aguzza), che valica (passa) i monti e abbatte (rompe) mura ed eserciti (armi)! Ecco la belva (colei) che appesta tutto il mondo!». Così cominciò a parlarmi la mia guida; e fece cenno alla belva (accennolle) di venire sull'orlo del precipizio (a proda), vicino all'estremità (fin) degli (d'i) argini di pietra (marmi) su cui avevamo camminato (passeggiati). E quella immonda (sozza) immagine della frode (froda) si accostò (sen venne) e sporse (arrivò) la testa e il tronco (busto), ma non trasse sulla sponda ('n su la riva) la coda. La sua era faccia di uomo onesto (giusto), tanto l'aspetto esteriore (di fuor la pelle) era benevolo (benigna), e tutto il resto del corpo (l'altro fusto) era di serpente; aveva due zampe artigliate (branche) e pelose fino (insin) alle ascelle; aveva la schiena (dosso), il petto e i fianchi (coste) ornati (dipinti) di linee intrecciate (nodi) e di figure rotonde (rotelle). Tartari e Turchi non fecero (fer) mai drappi con più colori, con più sfondi (sommesse) e rilievi (sovraposte), né tele così complesse (tai) furono mai ordite (imposte) da Aracne (Aragne). Come a volte stanno a riva le barche (burchi), in modo che in parte sono a terra e in parte in acqua, e come, nelle terre (là) dei Tedeschi ghiottoni (lurchi) si apposta il castoro (bivero) per cacciare (a far sua guerra), così la belva malvagia (pessima) se ne stava sull'orlo di pietra che cinge (serra) la landa infuocata (sabbion). La sua coda si agitava (guizzava) interamente (tutta) nel vuoto (vano), rivolgendo (torcendo) in alto la velenosa (venenosa) forbice (forca), dotata di aculei (la punta armava) simili (a guisa) a quello dello scorpione. Virgilio disse: «Ora dobbiamo (convien) deviare (torca) un poco il nostro cammino (via) per raggiungere (insino) quella bestia malvagia che sta coricata (si corca) laggiù (colà)». Perciò scendemmo verso destra (a la destra mammella), e facemmo (femmo) dieci passi sull'estremità (stremo), per evitare (cessar) la sabbia rovente (rena) e la pioggia di fuoco (fiammella). Quando fummo giunti (venuti semo) presso la fiera (a lei), vidi (veggio) poco lontano dei dannati (gente) sedere sulla sabbia, vicino (propinqua) alla voragine (loco scemo). Là il maestro mi disse: «Affinché tu riporti (porti) una completa (tutta piena) conoscenza diretta (esperïenza) di questo girone, va, e osserva la loro condizione (mena)». Presso di loro (là) i tuoi discorsi (ragionamenti) siano brevi (corti); in attesa (mentre) che ritorni, io parlerò con questa fiera, perché (che) ci (ne) presti (conceda) le sue spalle (omeri) robuste». Così da solo risalii ancora per la ristretta (strema) estremità (testa) di quel settimo cerchio, dove stavano seduti (sedea) gli usurai (gente mesta). Il loro dolore (duolo) erompeva (scoppiava) fuori (fora) dagli occhi; di qua e di là cercavano di aiutarsi (soccorrien) con le mani, (per difendersi) ora dalle fiamme (vapori), ora dalla sabbia rovente (caldo suolo): non diversamente si comportano (fan) i cani durante l'estate (di state), ora col muso (ceffo) e ora con le zampe (piè), quando sono punti (morsi) o da pulci o da mosche o da tafani. Quando rivolsi (porsi) lo sguardo al volto di alcuni (certi), sui quali cade il doloroso fuoco, non ne riconobbi nessuno; mi accorsi però che dal collo di ciascuno pendeva una borsa di un determinato (certo) colore e una determinata figura (segno), e di quella vista [della borsa] (quindi) il loro sguardo sembrava (par) nutrirsi (si pasca). E non appena giunsi (vegno) tra loro osservando, su di una borsa gialla vidi dell'azzurro che aveva l'aspetto (faccia) e il portamento (contegno) di un leone. Poi, continuando a guardare (procedendo di mio sguardo il curro = avanzando il corso del mio sguardo), ne vidi un'altra rossa come il sangue, che mostrava (mostrando) un'oca più bianca del burro. E un dannato, il cui sacchetto bianco era effigiato (segnato) con una grossa scrofa azzurra, mi disse: «Che cosa fai tu in questa cavità infernale (fossa)? Vattene (te ne va) ora; e poiché sei ancora (anco) vivo, sappi che il mio concittadino (vicin) Vitaliano verrà a sedersi alla mia sinistra (sinistro fianco). Io sono padovano in mezzo a questi Fiorentini: molto spesso (spesse fïate) mi assordano ('ntronan) gli orecchi gridando: "Venga il grande (sovrano) cavaliere, che porterà (recherà) sulla borsa l'insegna dei tre caproni (becchi)!"». A questo punto (Qui) storse la bocca e tirò (trasse) fuori la lingua, come fa il bue per leccarsi il naso. Ed io, temendo che (no) un ulteriore indugio ('l più star) potesse infastidire (crucciasse) il maestro (lui), che mi aveva ammonito a trattenermi per poco (poco star), mi allontanai (torna'mi in dietro) da quelle anime misere (lasse). Ritrovai Virgilio che era già salito sul dorso (groppa) dell'orribile e pericoloso (fiero) animale, e mi disse: «Ora devi essere (sie) forte e coraggioso. D'ora in poi (Omai) dovremo scendere con mezzi (scale) di questo tipo (sì fatte); sali (monta) davanti, perché io voglio stare nel mezzo (esser mezzo), in modo che la coda non ti possa nuocere (far male)». Come chi avverte dentro di sé (sì presso) il brivido (riprezzo) della febbre quartana, che ha già le unghie livide (smorte) e trema tutto anche solo (pur) a guardare un luogo ombreggiato (rezzo), così divenni io alle parole rivoltemi (porte) (da Virgilio); ma la vergogna, che davanti al signore valoroso (buon) rende coraggioso (forte) anche il servo, vinse la mia paura con le sue minacce (mi fé le sue minacce). Mi sistemai (m'assettai) su quelle spallacce; in verità (sì) avrei voluto dire (volli) «Abbracciami (Fa che tu m'abbracce)», ma la voce non uscì (venne) come avevo creduto. Ma egli, che in altra occasione mi aveva soccorso (sovvenne) di fronte ad un'altra incertezza (ad altro forse), appena (tosto ch') montai mi cinse (m'avvinse) con le braccia e mi diede sostegno (sostenne); e disse: «Gerione, ormai puoi partire: scendi con giri (rote) larghi e lenti (poco); pensa al carico (soma) insolito (nova) che hai». Come la navicella si stacca (esce) dalla riva (di loco) retrocedendo (in dietro in dietro), così quello si staccò (si tolse) di là (quindi); e quando si sentì completamente libero nei movimenti (a gioco), rivolse la coda dove prima era il petto e, dopo averla tesa, la mosse con un guizzo come quella di un'anguilla, e con le zampe raccolse l'aria al petto (a sé). Non credo che si provò (fosse) una paura più grande quando Fetonte si lasciò sfuggire (abbandonò) le redini (li freni) (del carro solare), per cui una parte del cielo, come si può ancora vedere (pare), venne bruciata (si cosse); né quando il misero Icaro sentì che la schiena (le reni) perdeva le penne (spennar) a causa della cera che si scioglieva (per la scaldata cera), mentre il padre gli gridava «Stai seguendo (tieni) un cammino sbagliato (Mala via)!», di quella (che) che provai io quando mi resi conto (vidi) che ero completamente (d'ogne parte) sospeso nell'aria, e mi accorsi (vidi) che era annullata (spenta) la vista di ogni cosa (ogne veduta) tranne (fuor) che del mostro (fera). Essa se ne va solcando l'aria (notando) lentamente; scende con ampi giri (rota e discende), ma non me ne accorgo se non per il fatto che l'aria mi spira (mi venta) in faccia e dal basso (di sotto). Dalla parte destra sentivo ormai il gorgo della cascata del Flegetonte (il gorgo) fare sotto di noi un orribile frastuono (scroscio), per cui sporsi (sporgo) la testa per guardare (con li occhi) in basso. Allora, quando vidi i fuochi e sentii le grida (delle bolge sottostanti), divenni (fu') più timoroso (timido) di cadere (a lo stoscio); per cui, tremando di paura, mi strinsi più forte al dorso (mi raccoscio). Potei quindi percepire (vidi poi), cosa che prima (davanti) non era possibile, la discesa a spirale di Gerione (lo scendere e 'l girar) a causa (per) dei tormenti (gran mali) che mi si avvicinavano da prospettive (canti) diverse. Come il falcone che ha volato a lungo (ch'è stato assai su l'ali) e, anche senza aver visto il richiamo (logoro) o una preda (uccello), fa dire al falconiere «Ahimè, tu stai scendendo! (tu cali)», discende affaticato (lasso), con molti (cento) giri, verso il luogo da cui (onde) è solito muoversi (si move) veloce (isnello), e, sdegnoso e crucciato (fello), si va a collocare (si pone) un po' lontano dal falconiere (maestro); in questo modo Gerione ci (ne) posò (puose) proprio ai piedi (al piè al piè) della ripidissima (stagliata) parete rocciosa (rocca) e, fatti scendere (discarcate) me e Virgilio (le nostre persone), scomparve rapidamente (si dileguò) come una freccia (cocca) scoccata dall'arco (corda). |
Riassunto
vv. 1-33 Gerione
Virgilio annuncia l'arrivo di Gerione, simbolo della frode, una bestia che corrompe il mondo. Questo mostro, con l'aspetto di una fiera, si avvicina al bordo del burrone su indicazione del poeta. La sua forma è una combinazione mostruosa: un volto umano, un corpo serpentino con nodi e rotelle che lo ricoprono, due zampe pelose e una coda biforcuta, dotata di aculei velenosi simili a quelli dello scorpione.
vv. 34-63 Dante osserva gli usurai
Virgilio invita Dante ad avvicinarsi da solo agli usurai, mentre lui cercherà di convincere Gerione a portarli nel cerchio inferiore, l'ottavo, noto come Malebolge. Gli usurai, seduti nel sabbione e colpiti dalla pioggia di fuoco, cercano invano di ripararsi con le mani. Ognuno di loro ha appeso al collo una borsa con lo stemma della propria famiglia. Dante nota che molti di questi sono membri di famiglie nobili fiorentine, come i Gianfigliazzi e gli Obriachi.
vv. 64-75 Rabbiosa reazione di un usuraio
Un dannato, della famiglia padovana degli Scrovegni, con rabbia annuncia l'arrivo di altri due usurai: il padovano Vitaliano del Dente e il fiorentino Giovanni di Buiamonte dei Becchi. In segno di disprezzo, l'usuraio tira fuori la lingua, come un bue che si lecca il muso.
vv. 76-136 Discesa al cerchio ottavo sul dorso di Gerione
Tornato indietro, Dante trova Virgilio già salito su Gerione. Il maestro lo invita a salire, raccomandandogli di essere forte e audace. Gerione allora si sposta all'indietro, come una barca che si stacca dalla riva, iniziando a scendere con ampi e lenti giri. Dante, sentendo l'aria che gli soffia in volto dal basso, comincia a vedere le bolge che si aprono sotto di lui. Dopo aver depositato i due poeti a terra, Gerione scompare velocemente, come una freccia scoccata da un arco.
Figure Retoriche
v. 7: "E quella sozza imagine di froda": Metonimia. L'astratto per il concreto, "quella sudicia immagine di frode" è riferito a Gerione.
v. 10: "Faccia sua": Anastrofe.
v. 13: "Due branche avea": Anastrofe.
v. 15: "Dipinti avea": Anastrofe.
v. 19-24: "Come tal volta stanno a riva i burchi...così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra": Similitudine.
vv. 26-27: "La venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava": Similitudine.
v. 32: "E diece passi femmo": Anastrofe.
v. 34: "A lei venuti semo": Anastrofe.
vv. 44-45: "Tutto solo / andai": Enjambement.
vv. 49-51: "Non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani": Similitudine.
v. 52: "Li occhi porsi": Metonimia.
v. 62: "Come sangue rossa": Similitudine e Anastrofe.
vv. 74-75: "Distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi": Similitudine.
vv. 85-88: "Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo...tal divenn'io a le parole porte": Similitudine.
vv. 100-101: "Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse": Similitudine.
vv. 103-104: "La coda rivolse, e quella tesa, come anguilla": Similitudine.
vv. 106-114: "Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte...né quando Icaro misero le reni...che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera": Similitudine.
vv. 110: "Scaldata cera": Anastrofe.
vv. 127-133: "Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali...così ne puose al fondo Gerione": Similitudine.
v. 136: "Si dileguò come da corda cocca": Similitudine.
Analisi ed Interpretazioni
Nel XVII Canto dell'Inferno, Dante affronta il passaggio dal cerchio dei violenti a quello di Malebolge, dove vengono puniti i fraudolenti, una delle categorie di peccatori più gravi nel poema. La figura centrale di questo canto è Gerione, un mostro mitologico che diventa il mezzo di trasporto dei due poeti, unendo simbolicamente il passaggio fisico e morale dal cerchio inferiore a quello superiore. La sua apparizione è anticipata nel Canto precedente, ma qui viene descritta in modo dettagliato: ha il volto di un uomo giusto, ma il corpo di un serpente con nodi e rotelle che simboleggiano i raggiri della frode. La coda, lunga e velenosa come quella dello scorpione, rappresenta il pericolo nascosto nelle azioni fraudolente. Questo mostro, che inizialmente appare immobile, si trasforma in un potente strumento di locomozione, ma la sua discesa è più simile a un'immersione nell'acqua che a un volo, come se Gerione stesse nuotando nell'aria.
Nel contesto del poema, Gerione è l'allegoria della frode, uno dei peccati più condannati da Dante, e la sua figura simboleggia l'inganno che si cela dietro apparenze ingannevoli. La sua descrizione dettagliata, che alterna similitudini con drappi colorati, tele e animali, enfatizza l'aspetto ingannevole e pericoloso di questa figura. Nonostante il suo aspetto orrendo e pericoloso, Gerione non ostacola il passaggio di Dante e Virgilio; al contrario, li aiuta nel loro viaggio infernale, similmente ai giganti e centauri che incontrano nel percorso, ma con la differenza che Gerione rappresenta un'entità legata alla menzogna e alla falsità.
La discesa su Gerione è accompagnata dalla paura di Dante, che inizia a temere il volo e il pericolo imminente, una sensazione di angoscia che accompagna il poeta durante tutto il suo viaggio. La paura di un volo fallito, evocata dalle immagini di Fetonte e Icaro, riflette la crescente consapevolezza di Dante dei pericoli del cammino spirituale che sta percorrendo. Tuttavia, è attraverso il sostegno di Virgilio, che rappresenta la ragione umana, che Dante riesce a superare questa paura, proseguendo il suo viaggio con maggiore determinazione.
Nel Canto, Dante descrive anche la pena degli usurai, un altro gruppo di peccatori di frode. Gli usurai, che avevano fatto della ricchezza il loro scopo nella vita, sono puniti in modo anonimo e degradante, un atto che riflette il disprezzo del poeta verso questa forma di corruzione. L'usura è vista come una manifestazione dell'avidità che caratterizza la corruzione politica e morale del suo tempo, in particolare quella di Firenze. Reginaldo degli Scrovegni, un usuraio padovano, profetizza la dannazione di Giovanni di Buiamonte dei Becchi, un altro usuraio fiorentino, e si inserisce così in una critica che Dante fa alla decadenza morale delle città italiane.
La figura dell'usuraio e quella di Gerione si intrecciano, poiché entrambi rappresentano una degenerazione del desiderio umano per il denaro e il potere. Dante collega la ricchezza all'infelicità spirituale e morale, e in questo senso le Malebolge, punendo la frode, simboleggiano la decadenza della società e la corruzione dei suoi valori fondamentali. La borsa appesa al collo degli usurai, che riporta lo stemma della loro famiglia, è un altro simbolo di questa corruzione, preannunciando anche il tema delle Bolge, la zona successiva dell'Inferno, dove ogni peccato è visibile attraverso il marchio del colpevole.
In sintesi, il Canto XVII rappresenta un momento di transizione importante nel percorso di Dante, che affronta la frode attraverso la figura di Gerione, simbolo di inganno, e la condanna degli usurai, un peccato che, pur non visibile all'esterno, corrompe profondamente l'animo umano. Il viaggio prosegue con la consapevolezza che la corruzione morale, simboleggiata dalla frode, è una delle forze più distruttive della società, e che solo attraverso la ragione e la purificazione interiore è possibile superarla.
Passi Controversi
Le "branche... pilose" di Gerione (v. 13) potrebbero riferirsi a zampe di drago, come suggerito da Boccaccio, oppure a quelle di un leone. Il termine "bivero" (v. 22) si riferisce al castoro, un animale il cui nome deriva dal latino biber. Al verso 39, "va, e vedi la lor mena" sembra significare «vai a osservare la loro condizione», anche se alcuni interpretano "mena" come sinonimo di «pena». Il verso 57 (e quindi par che 'l loro occhio si pasca) potrebbe indicare che gli usurai si rifugiano nella visione del simbolo della loro ricchezza, come se fosse un contrappasso, oppure che abbassano lo sguardo per evitare di essere riconosciuti da Dante. Alcuni manoscritti suggeriscono al v. 63 "più ch'eburro", ossia "più dell'avorio", ma la lettura a testo appare più coerente con il tono grottesco e comico dell'episodio. Al verso 95, "dubbio" potrebbe essere inteso come sostantivo. Il termine "stoscio" al v. 121 indica un "salto" o una "caduta dall'alto", mentre alcuni manoscritti leggono "scoscio", che potrebbe riferirsi al "movimento delle gambe". Dante sembra voler suggerire che la paura di cadere da Gerione spinge il poeta ad abbracciare il mostro, stringendosi su di lui. Infine, il "logoro" al v. 128 è il nome dato al richiamo per il falcone, solitamente rappresentato da un uccello impagliato con ali mobili.
Fonti: libri scolastici superiori