Parafrasi e Analisi: "Canto V" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto V del Purgatorio si svolge, come i canti precedenti, nell'Antipurgatorio e vede Dante incontrare le anime di coloro che sono morti di morte violenta ma si sono pentiti all'ultimo istante. Il dialogo con questi spiriti è introdotto dal loro stupore nel vedere l'ombra che Dante proietta a terra, un chiaro segno della sua presenza corporea. A differenza delle anime statiche e pigre incontrate nel canto precedente, queste appaiono vivaci e corrono verso i due poeti, desiderose di parlare con Dante affinché, una volta tornato nel mondo dei vivi, possa ricordarle.

Questa energia è sottolineata anche dal ritmo dei racconti dei tre spiriti che Dante incontra: Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro e Pia de' Tolomei. Ciascuno di loro narra una morte violenta avvenuta in Italia, e, nel descrivere queste diverse vicende, il canto pone l'accento sulla diffusione della violenza e dell'odio sul territorio italiano. Così, il Canto V apre simbolicamente la strada al Canto VI, in cui il poeta rifletterà proprio sull'instabilità e sulle lotte che affliggono la penisola.


Testo e Parafrasi


Io era già da quell'ombre partito,
e seguitava l'orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando 'l dito,

una gridò: «Ve' che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».

Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto.

«Perché l'animo tuo tanto s'impiglia»,
disse 'l maestro, «che l'andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;

ché sempre l'omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l'un de l'altro insolla».

Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l'uom di perdon talvolta degno.

E 'ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando 'Miserere' a verso a verso.

Quando s'accorser ch'i' non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d'i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;

e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr'a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».

E 'l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che 'l corpo di costui è vera carne.

Se per veder la sua ombra restaro,
com'io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed essere può lor caro».

Vapori accesi non vid'io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d'agosto,

che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta
come schiera che scorre sanza freno.

«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse 'l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».

«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.

Guarda s'alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?

Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l'ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,

sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n'accora».

E io: «Perché ne' vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s'a voi piace
cosa ch'io possa, spiriti ben nati,

voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a' piedi di sì fatta guida
di mondo in mondo cercar mi si face».

E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che 'l voler nonpossa non ricida.

Ond'io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,

che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s'adori
pur ch'i' possa purgar le gravi offese.

Quindi fu' io; ma li profondi fóri
ond'uscì 'l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,

là dov'io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m'avea in ira
assai più là che dritto non volea.

Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira,
quando fu' sovragiunto ad Oriaco,
ancor sarei di là dove si spira.

Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco
m'impigliar sì ch'i' caddi; e lì vid'io
de le mie vene farsi in terra laco».

Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l'alto monte,
con buona pietate aiuta il mio!

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte».

E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti traviò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».

«Oh!», rispuos'elli, «a piè del Casentino
traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano,
che sovra l'Ermo nasce in Apennino.

Là 've 'l vocabol suo diventa vano,
arriva' io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini', e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.

Io dirò vero e tu 'l ridì tra' vivi:
l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l'etterno
per una lagrimetta che 'l mi toglie;
ma io farò de l'altro altro governo!".

Ben sai come ne l'aere si raccoglie
quell'umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove 'l freddo il coglie.

Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento
per la virtù che sua natura diede.

Indi la valle, come 'l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento,

sì che 'l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;

e come ai rivi grandi si convenne,
ver' lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.

Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse
ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce

ch'i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».

«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via»,
seguitò 'l terzo spirito al secondo,

«ricorditi di me, che son la Pia:
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria

disposando m'avea con la sua gemma».
Io mi ero già allontanato da quelle anime, e
seguivo i passi della mia guida, quando dietro
a me, puntandomi il dito,

un'anima gridò: «Guarda come non sembra che risplendano
i raggi [del sole] dal lato sinistro di colui che sta più
in basso, e sembra che si muova come un uomo vivo!»

Al suono di queste parole volsi indietro lo
sguardo, e le vidi guardare meravigliate proprio
me e la luce del sole che era interrotta.

«Perché il tuo animo si lascia tanto distrarre»,
disse il mio maestro, «che rallenti l'andatura?
Che ti importa di ciò che là si bisbiglia?

Vieni dietro a me, e lascia parlare le persone:
sta' come una torre solida, a cui non crolla
mai la cima per il soffiare del vento;

poiché l'uomo in cui un pensiero si sovrappone
ad un altro, sempre allontana da sé la meta,
perché l'intensità del secondo indebolisce il primo».

Che cosa potevo rispondere io, se non «Io
vengo»? Così dissi, cosparso un poco di quel
rossore che talvolta rende l'uomo degno di perdono.

E intanto, lungo la parete [del monte]
trasversalmente, avanzavano anime poco più
sopra di noi, cantando 'Miserere' a versetti alternati.

Quando si accorsero che io non davo modo con
il mio corpo ai raggi solari di trapassare,
mutarono il loro canto in un «oh!» lungo e roco;

e due di loro, in veste di messaggeri, corsero
incontro a noi e ci domandarono: «Rendeteci
nota la vostra condizione».

E il mio maestro: «Voi potete tornare e
riferire a coloro che vi inviarono che il corpo
di costui è fatto di carne viva.

Se si fermarono per aver visto la sua ombra,
come io ritengo, questa risposta è loro sufficiente:
lo accolgano cortesemente, e ciò può essere loro vantaggioso».

Non vidi mai stelle cadenti attraversare così
velocemente il cielo sereno al principio della
notte, né, al calar del sole, le nuvole d'agosto,

rispetto a quelle anime che tornarono indietro
più rapide, e, giunte là, tornarono indietro verso di
noi con le altre, come una folla che corre sfrenata.

«Queste anime che fanno ressa intorno a noi sono
molte, e vengono per pregarti», disse il poeta:
«perciò continua a camminare, e mentre cammini ascolta».

«O anima che procedi per conquistare la beatitudine
con quelle membra con le quali sei nato», gridavano
avvicinandosi, «ferma per un po' i tuoi passi.

Guarda se hai mai visto qualcuno di noi, così da
portarne notizie in Terra: deh, perché continui a
camminare? Deh, perché non ti fermi?

Noi siamo stati tutti uccisi violentemente, e
siamo stati peccatori fino all'ultimo istante; in
quel momento la Grazia divina ci rese consapevoli,

cosicché, pentendoci e perdonando [i nostri
uccisori], lasciammo la vita riconciliati con Dio,
che del desiderio di vederlo ci tormenta».

E io: «Per quanto guardi nei vostri volti, non
riconosco nessuno; ma se desiderate qualcosa
che io possa fare, o spiriti destinati alla salvezza,

ditemelo, e io lo farò in nome di quella pace che,
seguendo i passi di questa autorevole guida, mi si
induce a cercare dall'uno all'altro mondo dell'oltretomba».

E un'anima incominciò a dire: «Ciascuno di noi si fida
del bene che prometti senza bisogno di giuramento, a meno
che una impossibilità non impedisca il compiersi della tua volontà.

Perciò io, che da solo prima degli altri parlo, ti
prego, se mai dovessi visitare quel paese che si
estende tra la Romagna e il Regno di Carlo,

che tu cortesemente rivolga le tue preghiere ai miei
familiari di Fano, così che ben si preghi Dio
per me affinché io possa espiare i miei gravi peccati.

Io fui di quella città; ma le profonde ferite da cui
uscì il sangue in cui io avevo sede, mi furono
inferti nel territorio di Antenore,

là dove io credevo di essere più al sicuro: me le
fece infliggere il signore d'Este, che mi aveva in
odio molto di più di quanto ne avesse diritto.

Ma se io fossi fuggito verso Mira, quando
fui raggiunto ad Oriago [dai sicari], sarei
ancora là dove si respira.

Corsi invece verso la palude, e le canne e il fango
mi impacciarono cosicché io caddi; e lì vidi formarsi
in terra una pozza con il sangue delle mie vene».

Poi parlò un altro: «Deh, possa realizzarsi quel
desiderio che ti spinge sulla vetta del monte,
con buona aiuta il mio!

Io fui di Montefeltro, sono Bonconte; Giovanna
e gli altri familiari non si curano di me; per
cui io cammino tra queste anime con la testa bassa».

E io a lui: «Quale forza o quale sorte ti trascinò
così lontano da Campaldino, che non si seppe
mai dove fosti sepolto?».

«Oh!» rispose egli, «ai piedi del Casentino scorre
un fiume che si chiama Archiano, che nasce
sull'Appennino sopra l'Eremo di Camaldoli.

Là dove perde il suo nome, arrivai io con la gola
trafitta, fuggendo a piedi e insanguinando
il terreno.

Lì persi la vista e la parola; spirai pronunciando
il nome di Maria, e là caddi, e non rimase
altro che la mia carne.

Io ti racconterò la verità e tu riferiscila tra i vivi:
l'angelo di Dio prese la mia anima, e l'emissario dell'Inferno
gridava: "Oh tu del cielo, perché me ne privi?

Tu porti via l'anima immortale di costui per una
lacrimuccia [di pentimento] che me la sottrae;
ma io tratterò ben diversamente il suo corpo!".

Tu sai bene come si addensi nell'aria quel vapore
acqueo che si riconverte in acqua, non
appena dove il freddo lo raggiunge.

Quel demonio congiunse la sua malvagia volontà, che desidera
solo il male, con il suo intelletto, e agitò il vapore e il
vento con i poteri che la natura [di angelo] gli concesse.

Quindi, appena la luce del giorno scomparve, coprì di
nebbia dal Pratomagno alla catena dell'Appennino;
e rese il cielo sovrastante denso di vapore,

cosicché l'aria satura di umidità si trasformò in
acqua; cadde la pioggia, e confluì nei
fossati quella parte che la terra non assorbì;

e non appena confluì nei torrenti, verso
il fiume principale si riversò, tanto velocemente
che nulla riuscì a trattenerla.

L'Archiano impetuoso trovò il mio corpo gelido
alla sua foce; e quello lo spinse nell'Arno, e
sciolse dal mio petto la croce

che io avevo fatto con le braccia quando fui sopraffatto
dal dolore; mi rivoltò contro le sponde e sul fondo, poi
con i suoi detriti mi ricoprì e mi avvolse».

«Deh, quando sarai tornato sulla Terra e ti
sarai riposato del lungo cammino», seguitò
un terzo spirito dopo il secondo,

«ricordati di me, che sono la Pia; nacqui a Siena,
morii in Maremma: lo sa bene colui che
promettendo di volermi come sposa

mi aveva cinto il dito con il suo anello».



Riassunto


Versi 1-63
Tra le anime dei negligenti, una nota con stupore l'ombra di Dante, rendendosi conto che egli è ancora vivo. Dante rallenta il passo, ma Virgilio lo incoraggia a mantenere fermezza e costanza, proseguendo il cammino senza distrazioni. Poco dopo, i due poeti incontrano un gruppo di anime che intonano il Miserere. Alla conferma che Dante è un vivente, gli spiriti si avvicinano speranzosi, vedendo in lui la possibilità di essere ricordati tra i vivi. Queste anime raccontano di essere morte in modo violento, ma con un pentimento all'ultimo istante.

Versi 64-84
La prima anima che si rivolge a Dante è quella di Jacopo del Cassero. Egli chiede al poeta di raccontare ai suoi familiari la verità sulla sua fine e narra la sua storia: inseguito dai sicari di Azzo VIII d'Este, Jacopo trovò la morte in una palude nelle vicinanze di Padova.

Versi 85-129
La seconda anima a parlare è Bonconte da Montefeltro, e Dante gli domanda che ne sia stato del suo corpo, mai ritrovato dopo la battaglia di Campaldino. Bonconte spiega di essersi trascinato fino alla foce dell'Archiano, dove riuscì a pentirsi poco prima della morte. Tuttavia, un demone, privato della sua anima per una lacrima di pentimento, scatenò una tempesta, facendo ingrossare il fiume che trascinò il suo corpo e lo seppellì tra i detriti.

Versi 130-136
La terza anima a parlare è quella di Pia, una donna senese assassinata in Maremma dal marito.


Figure Retoriche


v. 14. «sta come torre ferma»: Metafora per indicare la saldezza d'animo.
v. 18. «perché la foga l'un de l'altro insolla»: Iperbato.
v. 84. «de le mie vene farsi in terra laco»: Iperbole.
v. 95. «un'acqua»: Sineddoche per indicare il fiume.
v. 97. «Là 've 'l vocabol suo diventa vano»: Perifrasi per indicare la foce del fiume.
v. 129. «mi coperse e cinse»: Endiadi.
v. 134. «Siena mi fé, disfecemi Maremma»: Chiasmo.
vv. 135-136. «colui che 'nnanellata pria // disposando m'avea con la sua gemma»: Perifrasi per indicare il marito di Pia.
v. 136. «gemma»: Sineddoche per indicare l'anello


Personaggi Principali


Nel Canto V del Purgatorio, Dante incontra le anime di tre personaggi accomunati da una morte violenta, ma da un destino di salvezza, avendo ottenuto il perdono divino grazie al pentimento in fin di vita. Sebbene ognuno abbia vissuto vicende uniche, i loro racconti convergono in una coralità d'intenti, espressa in gesti e parole che sottolineano la misericordia divina verso chi si pente, anche all'ultimo istante.

Jacopo del Cassero
Jacopo del Cassero, primo a parlare, appartiene a una nobile famiglia guelfa marchigiana. Anche se il suo nome non viene esplicitamente menzionato, i dettagli della sua vita e della sua tragica fine erano noti ai contemporanei di Dante e ai commentatori dell'epoca. Nato a Fano intorno al 1260, Jacopo fu un valoroso uomo d'armi e un personaggio politico di spicco. Tra il 1288 e il 1289 partecipò con i Guelfi marchigiani alla Battaglia di Campaldino, occasione in cui probabilmente conobbe Dante. Nel 1296 fu nominato podestà di Bologna e si oppose alle ambizioni espansionistiche di Azzo VIII d'Este, marchese di Ferrara, attirando su di sé il suo odio. Quando, due anni dopo, Jacopo fu chiamato a Milano come podestà, scelse di viaggiare attraverso Venezia, evitando i territori estensi. Tuttavia, fu raggiunto e ucciso a Oriago, sulle rive del Brenta, forse tradito dai signori di Treviso e dai padovani.

Bonconte da Montefeltro
Bonconte, figlio di Guido da Montefeltro, nacque ad Arezzo intorno al 1250. Ghibellino, nel 1287 contribuì alla cacciata dei Guelfi da Arezzo, e l'anno seguente guidò i Ghibellini in una battaglia contro i senesi. Anche lui, come Jacopo, partecipò alla Battaglia di Campaldino nel 1289, dove perse la vita e il suo corpo non fu mai ritrovato. Bonconte è l'unico personaggio del Canto V a confessare il proprio pentimento poco prima di morire. La disputa tra angeli e demoni sulla sua anima richiama l'episodio della lotta tra San Francesco e un diavolo per l'anima di suo padre, Guido, raccontato nel Canto XXVII dell'Inferno. In questo parallelismo Dante ribadisce il valore del pentimento sincero, capace di riscattare anche i peccatori più incalliti, laddove invece una vita senza pentimento, per quanto apparentemente virtuosa, conduce alla dannazione.

Pia de' Tolomei
Dell'ultimo personaggio a prendere parola, Pia, conosciamo pochi dettagli storici. Secondo i primi commentatori di Dante, Pia sarebbe stata la moglie di Nello di Inghiramo dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e signore di un castello in Maremma. La sua presunta appartenenza alla nobile famiglia senese dei Tolomei e le circostanze del suo omicidio sono oggetto di ipotesi: alcuni ritengono che il marito l'abbia uccisa per una presunta infedeltà, mentre altri suggeriscono che Nello volesse sposare un'altra donna, la nobildonna Margherita Aldobrandeschi. Pia si esprime con poche, intense parole, mantenendo un'aura di mistero e un tono malinconico che ricorda Francesca da Rimini, protagonista del Canto V dell'Inferno. Entrambe vittime della violenza del marito, ma con destini opposti: mentre Francesca, senza pentimento, è condannata all'Inferno, Pia, pentita in extremis, è destinata alla salvezza.

Queste tre figure incarnano il tema centrale della misericordia divina e dell'importanza del pentimento, che permette il riscatto e la salvezza persino ai peccatori che hanno condotto vite difficili o segnate da errori.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto V dell'Inferno di Dante Alighieri è uno dei passaggi più intensi e drammatici della Divina Commedia, poiché rappresenta la pena dei lussuriosi, le anime travolte dal peccato carnale che in vita anteposero la passione alla ragione. È qui che Dante incontra Francesca da Rimini e il suo amante Paolo Malatesta, il primo vero dialogo tra il poeta e un peccatore dannato. Francesca racconta la storia d'amore proibito che legò lei e Paolo, culminata tragicamente in una morte violenta per mano del marito di lei, Gianciotto Malatesta. Dante, tuttavia, non cerca di giustificare o riabilitare i due amanti, ma piuttosto mette in guardia contro i pericoli della letteratura amorosa: i due si innamorarono leggendo le vicende di Lancillotto e Ginevra, confondendo la fantasia letteraria con la vita reale. Questa lettura, ispirata alla letteratura cortese del ciclo arturiano, divenne il catalizzatore del loro peccato, spingendoli a imitare ciò che era descritto nel libro.

Nel contesto del Canto V, Dante introduce la figura di Minosse, il giudice infernale, rappresentato come un essere mostruoso, una grottesca parodia della giustizia divina che assegna le anime ai vari gironi, avvolgendo la sua coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi infernali in cui l'anima deve essere punita. Minosse, benché privo della dignità attribuitagli nella mitologia classica, diventa così simbolo dell'ineluttabilità della condanna per coloro che, come i lussuriosi, non resistettero alla forza dei desideri carnali. La punizione riservata a questi peccatori è essere trascinati senza sosta da una bufera infernale, simbolo della passione incontrollata che li travolse in vita.

Parallelamente, nel Canto V del Purgatorio, Dante affronta un'altra categoria di anime in attesa di purificazione: le anime di coloro che, pur essendo morti di morte violenta, si pentirono soltanto in punto di morte. Anche questi peccatori, in un certo senso, mostrarono una forma di negligenza, avendo rimandato il pentimento fino all'ultimo momento. Condannati ad attendere nell'Antipurgatorio per un periodo equivalente alla durata della loro vita, queste anime camminano lungo la costa del monte, cantando il salmo Miserere come atto di contrizione. Questo canto rappresenta un contrappasso per antitesi: se in vita ignorarono la misericordia divina, ora non fanno che invocarla.

L'attenzione di Dante al tema della negligenza e del pentimento emerge quindi in entrambe le cantiche. Se da una parte il poeta condanna l'amore sensuale e incontrollato, dall'altra mette in guardia dalla negligenza di coloro che attendono fino all'ultimo istante per pentirsi. Attraverso figure come Francesca e Manfredi, Dante riflette sul complesso rapporto tra peccato, giustizia e misericordia, in un viaggio che dall'Inferno al Purgatorio esplora le conseguenze di vivere al di fuori della grazia divina e del rispetto delle leggi morali. Il percorso poetico e morale di Dante è anche un esame di coscienza: egli stesso, in passato, aveva scritto poesia amorosa di tipo cortese e qui sembra voler prendere le distanze da tale produzione, riconoscendo la potenziale pericolosità della letteratura amorosa, capace di influenzare chi la legge fino al punto di perdere la propria anima.


Passi Controversi


Nel canto V dell'Inferno, Dante descrive Minosse con caratteristiche animalesche, lontane dall'immagine virgiliana dell'eroe nell'Eneide (VI). Non è certo da quali fonti Dante tragga questa rappresentazione. Virgilio riesce a placare Minosse con le stesse parole utilizzate precedentemente per calmare Caronte (Inf. III, 95-96).

Il verso 20 contiene un'eco del Vangelo di Matteo (VII, 13), dove si legge "spatiosa via est, quae ducit ad perditionem," cioè "larga è la via che porta alla rovina.". Al verso 34 si parla di una "ruina," davanti alla quale i lussuriosi maledicono Dio; potrebbe trattarsi di una frana avvenuta al momento del terremoto legato alla morte di Cristo, segno per i dannati della giustizia divina.

Dante usa immagini di uccelli come stornelli, gru e colombe (vv. 40, 46, 82-84) per descrivere i lussuriosi, riprendendo temi comuni nella poesia amorosa. I "lai" (v. 46) richiamano sia i versi lamentosi delle gru sia i lais, componimenti poetici franco-provenzali e canti amorosi della tradizione occitana. Le colombe, uccelli sacri a Venere, appaiono nell'atto di avvicinarsi al nido, simbolo dell'amore.

La "terra che 'l Soldan corregge" (v. 60) è Babilonia, associata all'Egitto. Tuttavia, Dante potrebbe aver confuso Babilonia con la capitale dell'impero assiro. Francesca usa i termini sanguigno (v. 90) e perso (v. 89) per descrivere il colore rosso scuro del sangue, facendo intendere che lei e Paolo morirono in modo violento.

Nel verso 91, Francesca menziona il "re de l'universo," probabile riferimento a Dio, anche se alcuni ritengono possa alludere al dio Amore, di cui Francesca era devota in vita. Le rime voi/fui/sui (vv. 95, 97, 99) richiamano la tradizione siciliana, mentre nel v. 96, "ci tace" (dove "ci" è avverbio di luogo) è interpretato da alcuni manoscritti come "si tace.".

Al verso 100, Dante richiama versi di Guinizelli e della propria Vita Nuova, come "Foco d'amore in gentil cor s'aprende" e "Amore e 'l cor gentil sono una cosa.". Il verso 103, "Amor, ch'a nullo amato amar perdona," si ispira a un'idea contenuta nel De amore di Andrea Cappellano.

I versi 121-123 citano un passo di Boezio (De consolatione philosophiae, II, 4), anche se non è certo che Francesca faccia riferimento a Virgilio come "dottore"; potrebbe trattarsi proprio di Boezio. La storia cortese menzionata da Francesca (vv. 133 ss.) si riferisce all'episodio in cui Ginevra bacia Lancillotto; Dante potrebbe aver conosciuto una versione della vicenda in cui l'iniziativa è attribuita a Lancillotto. Galeotto, o Galehaut, il siniscalco di Ginevra, agisce come intermediario tra i due amanti.

Infine, il verso 142, che chiude il canto, è simile al verso finale del canto III (v. 136), creando un parallelo: "e caddi come l'uom cui sonno piglia."

Fonti: libri scolastici superiori

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