Parafrasi e Analisi: "Canto VI" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto VI del Purgatorio si apre in perfetta continuità con quello precedente, proponendo un lungo elenco di anime che hanno subito una morte violenta. Questo elenco funge da transizione, rendendo il passaggio da un canto all'altro meno brusco, ma ha anche uno scopo più profondo: permette a Dante di introdurre il tema principale di questi versi. Infatti, come nel Canto VI dell'Inferno e del Paradiso, anche qui viene affrontata una questione politica. Dante si sofferma in particolare sull'Italia, descrivendo il caos politico e sociale che ne caratterizza la situazione, e che è alla radice di quel contesto di violenza con cui il canto ha inizio.

Non è un caso che cinque dei sei personaggi nominati siano toscani e che l'altro sia un uomo di corte: la Toscana, nota nel Duecento per i frequenti episodi di violenza, e le corti, ambienti segnati da odio e invidia (come già trattato nel Canto XIII dell'Inferno), diventano i simboli dell'Italia che Dante critica con forza nella seconda parte del Canto.

In questo contesto emerge la figura di Sordello da Goito, l'unico personaggio del Canto VI che interviene direttamente. Egli rappresenta, insieme a Dante, i valori perduti, come l'amore per la patria, la cui mancanza ha portato al disordine politico e sociale descritto.


Testo e Parafrasi


Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.

Quiv'era l'Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l'altro ch'annegò correndo in caccia.

Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.

Vidi conte Orso e l'anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com'e' dicea, non per colpa commisa;

Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr'è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.

Come libero fui da tutte quante
quell'ombre che pregar pur ch'altri prieghi,
sì che s'avacci lor divenir sante,

io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;

e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?».

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;

ché cima di giudicio non s'avvalla
perché foco d'amor compia in un punto
ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla;

e là dov'io fermai cotesto punto,
non s'ammendava, per pregar, difetto,
perché 'l priego da Dio era disgiunto.

Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.

Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».

E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m'affatico come dianzi,
e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta».

«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi.

Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ' suoi raggi tu romper non fai.

Ma vedi là un'anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne 'nsegnerà la via più tosta».

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita
ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava
«Mantua...», e l'ombra, tutta in sé romita,

surse ver' lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell'anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz'esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!

Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com'è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?».

Vieni a veder la gente quanto s'ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m'è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l'abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l'accorger nostro scisso?

Ché le città d'Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno
l'antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.
Quando si conclude il gioco della zara, colui che
ha perso rimane amareggiato, ripetendo i tiri [del
dado], e deluso impara;

con il vincitore se ne vanno tutti gli spettatori; chi
gli cammina davanti, chi lo afferra da dietro, e
chi al suo fianco gli si raccomanda;

ma egli non si ferma, e ascolta gli uni e gli altri;
a chi egli porge la mano, questi smette di
pressarlo, e così si difende dalla massa.

Nella stessa situazione ero io in quella fitta
schiera [di anime], volgendo loro lo sguardo, di
qua e di là, e facendo promesse mi liberavo da essa.

Là vi era l'Aretino che fu ucciso dalle feroci mani
di Ghino di Tacco, e l'altro che annegò
inseguendo i nemici.

Là pregava con le mani protese Federigo Novello,
e quel pisano che fece sembrare il virtuoso
Marzucco forte.

Vidi il conte Orso e colui la cui anima fu divisa
dal suo corpo per odio e per invidia, come egli
diceva, non per una colpa commessa;

parlo di Pierre de la Brosse; e a questo provveda
mentre è ancora in vita la donna di Brabante,
così da non finire in una schiera peggiore.

Appena mi fui liberato da tutte quante quelle
anime che mi pregavano solo perché altri pregassero
[per loro], così che s'accelerasse la loro purificazione,

io cominciai: «Mi sembra che tu, o mia luce, neghi
esplicitamente nella tua opera che le decisioni
del Cielo possano essere piegate dalla preghiera;

ma queste anime pregano solo per questo:
sarebbe dunque vana la loro speranza, o non mi
sono ben chiare le tue parole?».

Ed egli a me: «Il mio testo è semplice, e la
speranza di costoro non è vana, se ben si
esamina con la mente sgombra [da errori];

perché l'altezza del giudizio [di Dio] non si abbassa
per il fatto che il sentimento di carità dei vivi esaurisca
in un istante ciò deve espiare chi si trova qui;

e nel passo in cui io io parlai di questo
argomento, non si espiava, grazie alla preghiera,
la pena, perché la preghiera era separata da Dio.

Tuttavia non fermarti di fronte a un dubbio così
profondo, se non te lo dice colei che farà la luce
tra la Verità e l'intelletto.

Non so se capisci: parlo di Beatrice; tu la vedrai
più in alto, sulla vetta di questo monte,
sorridente e felice».

Ed io: «Signore, procediamo più in fretta, perché
già mi stanco meno di prima, e vedi che ormai
il monte proietta la propria ombra».

«Noi proseguiremo con la luce di questo giorno»,
rispose, «ormai quanto più potremo; ma la
situazione è diversa da quel che pensi.

Prima di arrivare lassù, vedrai tornare colui che
già si nasconde dietro la parete [del monte],
così che tu non interrompi più i suoi raggi.

Ma vedi là un'anima che, posta sola soletta,
guarda verso di noi: quella ci indicherà la via
più veloce [per salire]».

Ci avvicinammo a lei: o anima lombarda, come te ne
stavi fiera e disdegnosa e come eri onesta e
pacata nel muovere il tuo sguardo!

Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava
avanzare, limitandosi a guardare come un
leone quando sta in riposo.

Tuttavia Virgilio si avvicinò a lei, pregandola
di mostrarci la salita più agevole; e quella
non rispose alla sua domanda,

ma ci chiese il nostro paese di provenienza e
la nostra identità; e la mia dolce giuda cominciò:
«Mantova…» e l'anima, tutta chiusa in se stessa,

si slanciò verso di lui dal luogo dove stava prima,
dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della
tua città!» e si abbracciavano l'un l'altro.

Ahimè Italia, fatta schiava, albergo di dolore,
nave senza nocchiere in mezzo ad una grande tempesta,
non più donna di popoli, ma prostituta!

Quell'anima nobile fu così veloce, solo per [aver
udito] il dolce nome della sua città, a far
festa al suo concittadino;

mentre adesso nei tuoi confini i tuoi abitanti non riescono
a stare senza farsi la guerra, e l'un l'altro si combattono
coloro che sono racchiusi in un unico muro e in un unico fossato.

Cerca, o misera, lungo le coste i tuoi territori
marini, e poi guarda i tuoi territori interni,
se esiste alcuna parte di te che gode della pace.

A cosa serve che Giustiniano abbia riaggiustato
il freno [dell'autorità], se il trono è vuoto?
Senza questo fatto la vergogna sarebbe minore.

Ahimè gente che dovresti essere devota [a Dio],
e lasciare sedere l'imperatore sul trono,
se ben comprendi quello che Dio ti insegna,

guarda come questa bestia è divenuta indomabile
per non essere governata dagli speroni,
da quando hai preso in mano la briglia.

O Alberto d'Austria che abbandoni costei che
è divenuta indomabile e selvaggia, mentre
dovresti salire sulla sua sella,

un giusto castigo dal Cielo ricada sulla tua
stirpe, e sia straordinario ed evidente, tale
che il tuo successore ne abbia timore!

Perché tu e tuo padre avete sopportato, presi
dalla brama di conquista della Germania, che
il giardino dell'Impero fosse abbandonato.

Vieni a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i
Monaldi e i Filippeschi, o uomo incurante: i
primi già decaduti, gli altri timorosi!

Vieni, o crudele, vieni, e osserva l'oppressione
dei tuoi vassalli, e ripara i loro errori; e
ti accorgerai di com'è decaduta Santafiora!

Vieni a vedere la tua Roma che piange, vedova e
abbandonata, e giorno e notte invoca:
«Imperatore mio, perché non mi accompagni?».

Vieni a vedere quanto si ama la gente! E se ciò
non ti muove ad alcuna compassione verso di noi,
vieni a vergognarti almeno della tua fama.

E se mi è lecito, o Cristo che fosti
crocifisso per noi in Terra, sono i tuoi
giusti occhi rivolti altrove?

O forse è una preparazione che tu disponi,
nell'abisso della tua mente, ad un futuro bene del
tutto estraneo alla nostra comprensione?

Perché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni,
e ogni villano che si pone alla testa di
un partito diventa un Marcello.

Firenze mia, puoi essere ben contenta di questa
digressione che non ti riguarda, grazie al
tuo popolo che si dà da fare.

Molti hanno il senso della giustizia nell'animo, ma tardi
viene manifestato perché non venga attuato senza la giusta
riflessione; ma il tuo popolo ce l'ha sulle labbra.

Molti rifiutano le cariche pubbliche; ma il tuo
popolo prontamente risponde senza essere
chiamato, e grida: «Io accetto!».

Ora sii felice, perché tu ne hai ben motivo: tu
ricca, tu in pace, tu saggia! Se io dico il vero,
i fatti non lo nascondono.

Atene e Sparta, che scrissero le antiche leggi
e furono così civilizzate, diedero per il bene
comune un piccolo contributo

rispetto a te, che crei così sottili provvedimenti,
che a metà novembre non giunge ciò che avevi
emanato ad ottobre.

Quante volte, del tempo che ricordi, hai
cambiato leggi, moneta, istituzioni e
consuetudine, e hai rinnovato i cittadini!

E se ti ricordi bene e vedi con chiarezza, ti
vedrai simile a quella malata che non può trovare
pace sulle piume [del letto],

ma voltandosi continuamente cerca sollievo dal dolore.



Riassunto


Versi 1-57
Dante si allontana dalle anime di coloro che sono morti in modo violento, le quali lo circondano sperando in suffragi. Una volta liberatosi dalla loro insistenza, Dante espone a Virgilio un dubbio che lo tormenta: nell'Eneide è scritto chiaramente che la Volontà divina non può essere influenzata dalle preghiere. Dunque, è forse vana la speranza delle anime che chiedono a lui proprio questo aiuto? Virgilio rassicura Dante, spiegandogli che le preghiere pronunciate con vera carità possono ridurre la durata della pena, anche se non cambiano il giudizio divino. Aggiunge inoltre che, nell'Eneide, la preghiera non poteva ottenere perdono poiché veniva da un'anima pagana, distante da Dio. Conclude invitando Dante a porre la stessa domanda a Beatrice, che incontrerà sulla cima del monte del Purgatorio.

Versi 58-75
Virgilio poi indica a Dante un'anima solitaria, dicendo che potrà guidarli verso la strada più diretta per proseguire la salita. Lo spirito, tuttavia, anziché rispondere subito, chiede ai due chi siano e da dove vengano. Quando Virgilio pronuncia il nome "Mantova", l'anima, che si rivela essere Sordello da Goito – anch'egli originario di Mantova – si lancia verso di lui per abbracciarlo con affetto.

Versi 76-126
Dante, ricordando con commozione quella scena di affetto basato unicamente sulla comune origine, dà sfogo alla propria indignazione per l'Italia, priva di pace e abbandonata da chi dovrebbe governarla con cura. Dante esprime la sua accusa nei confronti di Alberto d'Austria, che non si è mai preoccupato del Bel Paese, e verso gli ecclesiastici, che hanno approfittato della situazione per acquisire potere temporale, un potere che non spetta loro.

Versi 127-151
Dante, infine, si rivolge ironicamente a Firenze, affermando che la città può ben vantarsi di non essere inclusa in questa critica. In realtà, con questo espediente, Dante elenca i problemi che affliggono Firenze: dalla mancanza di giustizia ai continui e instabili cambiamenti politico-sociali.


Figure Retoriche


vv. 65-66. «ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa»: Similitudine.
v. 84. «di quei ch'un muro e una fossa serra»: Perifrasi per indicare gli abitanti di una stessa città.
v. 99. «arcioni»: Sineddoche per indicare la sella.
vv. 106, 109, 112 e 115. «Vieni»: Anafora.
v. 130. «e tardi scocca»: Metafora per indicare la giustizia d'animo che viene manifestata.
v. 139. «Atene e Lacedemona»: Metonimia per indicare i legislatori delle due città greche, Licurgo e Solone


Personaggi Principali


Sordello da Goito, nato vicino a Mantova tra la fine del XII secolo e l'inizio del XIII, fu uno dei poeti in lingua provenzale più celebri dell'Italia Settentrionale. Nei suoi primi anni, probabilmente svolse la funzione di giullare. Attorno al 1220-1221 si trovava alla corte di Azzo VII d'Este a Ferrara, dove iniziò a sviluppare le sue abilità poetiche. Successivamente si trasferì a Verona, alla corte di Rizzardo di San Bonifacio. Qui, nel 1226, fu incaricato da Ezzelino III da Romano di rapire Vunizza, moglie di Rizzardo. In seguito, Sordello contrasse un matrimonio segreto con la nobile Otta di Strasso, nonostante l'opposizione della famiglia di lei. Questo evento sembra averlo spinto a lasciare Verona e l'Italia nel 1229. Dopo aver viaggiato in Spagna e Portogallo e aver soggiornato presso diverse corti, si stabilì in Provenza nel 1233, dove divenne cavaliere sotto il conte Raimondo Berengario IV.

In questi anni Sordello produsse gran parte delle sue opere più famose: scrisse liriche che spaziano dalla politica all'amore, il poemetto Ensenhamen d'onor, incentrato su precetti di onore e virtù, e il Compianto in morte di ser Blacatz, la sua opera più celebre. Quest'ultima, un planh polemico, invita i prìncipi del tempo – inclusi l'imperatore Federico II – ad assumere le virtù del defunto nobile Blacatz mangiandone simbolicamente il cuore, come espressione della mancanza di nobiltà morale dei potenti contemporanei.

Dopo la morte di Raimondo, Sordello entrò al servizio del suo erede, Carlo d'Angiò, divenuto nuovo conte di Provenza. Nel 1265, ritornò in Italia insieme a Carlo, e nel 1269 ricevette dei feudi in Abruzzo, dove si presume sia morto nello stesso anno. Non esistono fonti anteriori a Dante che confermino un presunto assassinio.

Nel Purgatorio, nel Canto VI, Sordello appare come una figura significativa: è proprio l'abbraccio tra lui e Virgilio a dare inizio alla lunga invettiva di Dante contro l'Italia e Firenze, tema centrale del canto. Sordello si distingue nella narrazione anche per la sua calma e dignità, in netto contrasto con il caos che lo circonda, evocando tratti di austerità e grandezza morale simili a quelli di Farinata nel Canto X dell'Inferno. Diventa così un personaggio esemplare, capace di giudicare i potenti della sua epoca nel Compianto in morte di ser Blacatz e di riflettere con malinconia sui valori passati – cortesia, amor di patria e nobiltà d'animo – sentimenti che Dante stesso condivide.

Curiosità: Sebbene alcuni abbiano accusato Sordello di essere un semplice giullare, Dante ce lo presenta come un'anima austera e nobile.


Analisi ed Interpretazioni


Nel Canto VI delle tre cantiche della Divina Commedia Dante affronta il tema politico con una prospettiva sempre più ampia. Nel Canto VI dell'Inferno, attraverso il personaggio di Ciacco, si sofferma sulle lotte interne della sua città natale, Firenze, descrivendo i Fiorentini come un popolo dilaniato da superbia, invidia e avarizia, peccati che causano discordie e divisioni politiche. Firenze, quindi, appare come un esempio di instabilità, frutto dell'avidità e delle ambizioni personali, che finiranno per condurre la città verso l'ingiustizia e il dolore. Ciacco profetizza la vittoria dei Guelfi Neri e l'esilio di Dante, rappresentando un popolo che, pur avendo persone dedite al bene, è sommerso dalla corruzione.

Questa critica, già aspra nell'Inferno, si fa ancora più estesa nel Canto VI del Purgatorio, dove l'invettiva di Dante si allarga a tutta l'Italia, descritta come una terra che, priva di unità, è costantemente dilaniata da guerre e conflitti tra i suoi stessi abitanti. Dante denuncia non solo il popolo italiano ma anche le autorità, in particolare la Chiesa, colpevole di aspirare al potere temporale senza esercitarlo con giustizia, e l'imperatore Alberto d'Asburgo, accusato di aver abbandonato la penisola e di aver lasciato l'Italia in balia delle Signorie. L'Italia, simbolicamente raffigurata come una schiava priva di libertà, si presenta agli occhi di Dante come una nazione lacerata dalla lotta per il potere e dalla corruzione.

Infine, nel Canto VI del Paradiso, il discorso politico raggiunge il culmine con la celebrazione dell'Impero e il richiamo alla necessità di un'autorità che possa garantire giustizia e stabilità. Qui, attraverso la figura di Giustiniano, Dante presenta l'Impero come un ideale politico che dovrebbe riportare ordine e pace, esaltando una prospettiva universale di giustizia.

Un altro tema che emerge chiaramente nel Purgatorio è quello della preghiera, che assume un ruolo fondamentale nel percorso di redenzione. Già nei canti precedenti, le anime chiedono a Dante di far pregare per loro una volta tornato sulla Terra, poiché le preghiere dei vivi possono alleviare la loro pena, accorciando il tempo di purgazione. Nel Canto VI, Dante pone un interrogativo teologico a Virgilio, chiedendo come le preghiere possano influire sul giudizio divino, dal momento che, secondo l'Eneide, la volontà di Dio è immutabile. Virgilio risponde chiarendo che le preghiere dei vivi non cambiano la sentenza di Dio ma possono ridurre la permanenza delle anime nel Purgatorio, poiché Dio, in quanto giudice supremo, resta immutabile nella sua sentenza ma accoglie le intercessioni per abbreviare le pene.

Dante, dunque, attraverso questi canti, denuncia la decadenza morale e politica della sua epoca, cercando di proporre un modello di ordine e giustizia fondato sulla cooperazione tra potere temporale e spirituale, e pone la preghiera come uno strumento essenziale di comunione tra vivi e morti, capace di avvicinare l'anima alla redenzione. La Commedia diviene così un viaggio non solo personale ma collettivo, un richiamo a un'umanità che deve ritrovare i valori etici e religiosi, oltre a una politica giusta, capace di garantire ordine e pace.


Passi Controversi


All'inizio del Canto VI, Dante riprende i sensi dopo essere svenuto alla fine del Canto V, turbato dalla storia drammatica dei due cognati, Paolo e Francesca, i lussuriosi. Al verso 14 si trova una particolare cesura in tmesi, dove la parola "caninamente" viene spezzata nei suoi elementi etimologici, "canina-" e "-mente".

Nel verso 21, l'espressione "miseri profani" può essere intesa come una dittologia sinonimica che esprime la sofferenza sia morale che materiale, anche se alcuni commentatori l'hanno interpretata semplicemente come "dannati". Il verso 36 richiama la natura incorporea delle anime, che non oppongono resistenza ai passi di Dante e Virgilio; tuttavia, Dante a volte rappresenta i dannati come aventi una consistenza fisica per conferire maggior realismo alla scena.

Un gioco di parole, tipico dello stile guittoniano, appare nel verso 42 con il bisticcio "disfatto" e "fatto". Firenze è descritta come "città partita" al verso 61, poiché è divisa da forti tensioni politiche. La "parte selvaggia" del verso 65 si riferisce ai Bianchi, guidati dai Cerchi, originari della campagna; il "fatto di sangue" menzionato è la zuffa di Calendimaggio del 1300, in cui fu coinvolto anche Guido Cavalcanti, caro amico di Dante.

Al verso 69, Dante sembra alludere a Bonifacio VIII, che nel 1301-1302 fece da mediatore nelle dispute fiorentine ma favorì segretamente i Neri; alcuni vedono in questa figura anche Carlo di Valois, il cui intervento militare rovesciò il potere dei Bianchi. Quando Dante scrive "giusti son due" al verso 73, vuole probabilmente sottolineare la scarsità di persone giuste a Firenze, anche se alcuni hanno cercato di identificare specificamente questi "giusti" (come Dante e Dino Compagni o Dante e Guido Cavalcanti). Esistono interpretazioni che identificano i "due giusti" con concetti come il diritto naturale e quello scritto, ma queste rimangono ipotesi meno condivise.

Il personaggio di Tegghiaio, menzionato al verso 79, è qui reso bisillabo per via del trittongo -aio. L'Arrigo del verso 80 è invece un personaggio non identificato, mai più menzionato tra i dannati. Il termine "attosca" nel verso 84 significa "avvelena", con radice in "tosco" ("veleno"), come già usato da Dante nel XIII Canto.

Al verso 96, "la nimica podesta" si riferisce a Cristo come giudice dei dannati. I versi 97-99 richiamano la credenza cristiana secondo cui, nel giorno del Giudizio Universale, le anime torneranno nei loro corpi e si raduneranno nella valle di Giosafat. Infine, la spiegazione di Virgilio nei versi 106-111 si ispira strettamente all'insegnamento di Tommaso d'Aquino nel commento al De anima di Aristotele, dove si afferma che quanto più un'anima è perfetta, tanto più sono numerose, complesse e perfette le sue operazioni.

Fonti: libri scolastici superiori

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