Parafrasi e Analisi: "Canto VII" - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Nel settimo canto dell'Inferno, Dante si inoltra in un regno di tensioni profonde, dove la voracità e lo spreco trovano la loro punizione tra anime lacerate dai loro stessi eccessi. Tra figure mitiche e paesaggi simbolici, il poeta esplora il disordine morale di chi ha ecceduto nel desiderio, mostrando come l'avidità e la prodigalità distorcano l'armonia dell'esistenza. Questo canto, denso di immagini potenti e riflessioni morali, guida il lettore in una visione cruda ma illuminante delle dinamiche umane, immerse nel contrasto tra brama e inutilità.
Testo e Parafrasi
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch'elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia». Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia. Non è sanza cagion l'andare al cupo: vuolsi ne l'alto, là dove Michele fé la vendetta del superbo strupo». Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele. Così scendemmo ne la quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant'io viddi? e perché nostra colpa sì ne scipa? Come fa l'onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, così convien che qui la gente riddi. Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand'urli, voltando pesi per forza di poppa. Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand'era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto, dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra». Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l'abbaia, quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia. Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio». E io: «Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali». Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi, ad ogne conoscenza or li fa bruni. In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro. Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d'i ben che son commessi a la fortuna, per che l'umana gente si rabuffa; ché tutto l'oro ch'è sotto la luna e che già fu, di quest'anime stanche non poterebbe farne posare una». «Maestro mio», diss'io, «or mi dì anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v'offende! Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì ch'ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani; per ch'una gente impera e l'altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi. Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue. Quest'è colei ch'è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s'è beata e ciò non ode: con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta». Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr'una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva. L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giù per una via diversa. In la palude va c'ha nome Stige questo tristo ruscel, quand'è disceso al piè de le maligne piagge grige. E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest'acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira. Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra". Quest'inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra». Così girammo de la lorda pozza grand'arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. Venimmo al piè d'una torre al da sezzo. |
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò a dire Pluto con la voce aspra e roca (chioccia); e Virgilio (quel savio gentil), che ne comprese il significato (che tutto seppe), disse per confortarmi: «Non ti rechi danno (Non ti noccia) la tua paura; poiché, per quanto potere abbia costui (poder ch'elli abbia), non ci impedirà (non ci torrà) di scendere per questo balzo roccioso (roccia)». Poi si rivolse a quella figura gonfia di rabbia ('nfiata labbia), e disse: «Taci, maledetto lupo! Sfoga (consuma) in te stesso la tua rabbia. Il fatto che noi andiamo (l'andare) nella profondità infernale (al cupo) non è senza giustificazione (cagion); ciò è voluto (vuolsi) dal Cielo (ne l'alto), là dove l'arcangelo Michele punì giustamente (fé la vendetta) la superba violenza (strupo: la ribellione degli angeli) Come le vele, gonfiate dal vento, cadono (caggiono) ravvolte, quando l'albero si spezza (fiacca), così (tal) cadde a terra (fiaccato dalla risposta di Virgilio) il demone (fiera) crudele. Così discendemmo al quarto cerchio (lacca), percorrendo (pigliando) un tratto in più (più) del pendio infernale (dolente ripa) che racchiude (insacca) tutto il male dell'universo. Ahi giustizia divina! Chi, come te, ammassa (stipa) tante diverse e strane (nove) pene fisiche e morali (travaglie e pene) quante io ne vidi (viddi)? e perché la nostra colpa tanto ci strazia (ne scipa)? Come fanno le acque (l'onda: il mar Ionio) sopra il vortice di Cariddi (nello stretto di Messina), che si infrangono urtandosi (s'intoppa) con quelle del Tirreno, allo stesso modo è qui necessario che i dannati (gente) ballino la ridda (riddi). Qui io vidi dannati più numerosi (troppa) che negli altri cerchi (più ch'altrove), che spingevano (voltando) col petto (per forza di poppa) pesanti macigni (pesi), da una parte (gli avari) e dall'altra (i prodighi), con alte urla. Si scontravano (Percotëansi) gli uni contro gli altri ('ncontro); e quindi, proprio in quel punto (pur lì), ciascuno invertiva la direzione (si rivolgea), spingendo indietro anche i macigni (voltando a retro), gridando: «Perché trattieni (il denaro)?» e «Perché sperperi (burli)?» Così giravano (tornavan) per l'oscuro (tetro) cerchio da ciascuna parte (mano) verso l'estremità opposta (l'opposito punto), gridandosi ancora (anche) il loro ingiurioso (ontoso) ritornello (metro); poi ciascuno, una volta giunto, si voltava (si volgea) nel suo semicerchio dirigendosi verso il punto dello scontro successivo (a l'altra giostra). Ed io, col cuore quasi turbato (compunto), dissi: «Maestro, spiegami ora (or mi dimostra) che tipo di peccatori sono questi, e se questi tonsurati (chercuti) alla nostra sinistra furono (fuor) tutti ecclesiastici (cherci)». Ed egli: «Quando erano vivi (in la vita primaia) furono tutti così ciechi (guerci) di mente che non fecero (ferci) nessuna (nullo) spesa (spendio) con misura. Il loro grido ingiurioso (voce) lo dichiara (l'abbaia) chiaramente, quando giungono nei due punti del cerchio in cui la colpa opposta (contraria) li costringe a separarsi (li dispaia). Questi, che non hanno capelli sulla sommità del capo (coperchio/ piloso al capo), furono ecclesiastici (cherci), anche (e) papi e cardinali, in cui l'avarizia esercita (usa) il proprio eccesso (soperchio)». E io: «Maestro, tra costoro (questi cotali) io dovrei certo (ben) riconoscere alcuni che furono macchiati (immondi) da queste colpe (mali)». Ed egli: «Tu coltivi (aduni) un pensiero illusorio (Vano): la vita dissennata (sconoscente) che li (i) rese (fé) colpevoli (sozzi), ora li rende (fa) irriconoscibili (ad ogne conoscenza or li fa bruni). Andranno in eterno verso i due punti di incontro (a li due cozzi): gli uni (questi: gli avari) sorgeranno dal sepolcro col pugno chiuso, gli altri (e questi: i prodighi) coi capelli (crin) rasati (mozzi). La prodigalità (Mal dare) e l'avarizia (mal tenere) hanno loro tolto il paradiso (mondo pulcro) e li ha destinati (posti) a questa rissa (zuffa): (a descrivere) quale essa sia non aggiungo altre belle parole (non ci appulcro). Ora, figliolo, puoi vedere l'instabilità (corta buffa = breve soffio) dei beni che sono affidati (commessi) alla fortuna, per i quali gli uomini si azzuffano (si rabuffa); poiché tutto l'oro che c'è e fu sulla terra (sotto la luna) non potrebbe far cessare un attimo la pena (posare) di una sola (una) di queste anime fiaccate (stanche)». Io dissi: «Maestro, dimmi ancora (anche): che cos'è questa fortuna di cui tu mi parli (tocche), che tiene (ha) così strettamente (sì) tra gli artigli (branche) i beni del mondo?». Ed egli a me: «Oh creature sciocche, quanta è l'ignoranza che vi danneggia (v'offende)! Ora voglio (vo') che tu senta ('mbocche) la mia opinione (sentenza) intorno a ciò. Dio (Colui), la cui sapienza (saver) supera (trascende) ogni cosa, creò i cieli e prepose (diè) loro le intelligenze motrici (chi conduce), cosicché ognuna di esse (ogne parte) riflette la propria luce intellettuale (splende) su ogni cielo (ad ogne parte), distribuendo uniformemente (igualmente) la luce divina. Allo stesso modo istituì (ordinò) una forza celeste generale (la fortuna) che distribuisse (ministra) e mettesse in movimento (duce) i beni (splendor) mondani, che al momento opportuno (a tempo) cambiasse (permutasse) le ricchezze (ben vani) di popolo (gente) in popolo e di stirpe (sangue) in stirpe, al di là di ogni resistenza (difension) dell'umana ragione (senni umani); in modo che, seguendo il volere (giudicio) della fortuna (costei), che è nascosto (occulto) come la serpe (l'angue) nell'erba, un popolo regna e l'altro soggiace (langue). La vostra intelligenza (saver) non può contrastare (non ha contasto) con lei: essa provvede, giudica e attua (persegue) i suoi decreti (suo regno) come le intelligenze angeliche (li altri dèi) i loro. I suoi mutamenti (permutazion) sono continui (non hanno triegue): la necessità (di seguire la volontà divina) la fa essere rapida; così spesso accade (vien) che qualcuno (chi) muti condizione (vicenda consegue). Essa è tanto ingiuriata (posta in croce) anche (pur) da coloro che la dovrebbero (dovrien) lodare, mentre invece le danno a torto biasimo e cattiva fama (mala voce); ma essa se ne sta beata e non ode tutto ciò: lieta con le altre intelligenze celesti (prime creature), gira (volve) la sua ruota (spera) e gode beatamente. Ma ora discendiamo ormai verso una angoscia (pieta) maggiore; già le stelle che salivano quando io mi mossi stanno tramontando (cade), ed è proibito (si vieta) sostare (star) troppo». Noi attraversammo (ricidemmo) il cerchio fino all'orlo (riva) opposto, presso una fonte che gorgoglia (bolle) e si rovescia (riversa) in un canale (fossato) che nasce (deriva) da quella. L'acqua era molto più scura (buia) del color perso; e noi, insieme alle onde torbide (bige), scendemmo per un cammino malagevole (via diversa). Questo misero (tristo) corso d'acqua (ruscel), dopo essere sceso alla base (al piè) dei tetri scoscendimenti della ripa (maligne piagge grige), si getta (va) nella palude che ha nome Stige. E io, che ero tutto intento (inteso) a guardare (mirare), vidi in quella palude (pantano) dei peccatori (gli iracondi) coperti di fango (genti fangose), tutti nudi, dall'aspetto (sembiante) irato (offeso). Essi si percuotevano non solo (non pur) con le mani, ma anche con la testa, col petto e coi piedi, dilaniandosi (troncandosi) brano a brano coi denti. Virgilio disse: «Figlio, stai ora vedendo le anime di coloro che furono afflitti dall'ira (cui l'ira vinse); e voglio (vo') inoltre (anche) che tu sappia (per certo credi) che sott'acqua vi è gente che sospira, facendo gorgogliare (pullular) la superficie (summo) dell'acqua, come ti rivela (dice) lo sguardo, dovunque (u') si rivolga (s'aggira). Conficcati (Fitti) nel fango (limo) dicono: "Sulla terra (ne l'aere dolce che dal sol s'allegra) fummo tristi, portando dentro di noi il fumo dell'accidia (accidïoso fummo); ora ci rattristiamo nella nera fanghiglia (belletta)'. Pronunciano (si gorgoglian) queste parole (inno) nella gola (strozza), poiché non possono (avendo la bocca piena di fango) dirle chiaramente (con parola integra)». Così percorremmo (girammo) un grande arco della palude fangosa (lorda pozza), tra la riva asciutta (ripa secca) e il pantano ('l mézzo), con lo sguardo rivolto ai dannati (a chi del fango ingozza). Giungemmo infine (al da sezzo) ai piedi di una torre. |
Riassunto
Il Demonio Pluto (vv. 1-15)
Quando Dante e Virgilio si trovano davanti al demonio Pluto, quest'ultimo esplode in un grido enigmatico e furioso: «Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!». Virgilio, percependo il turbamento di Dante, lo incoraggia a non temere, poi si rivolge al demonio con parole perentorie, simili a quelle utilizzate in precedenza con Caronte e Minosse. Pluto, sconfitto e privo di forza, si accascia a terra, permettendo ai due poeti di proseguire.
Gli Avari e i Prodighi (vv. 16-66)
Entrati nel quarto cerchio, Dante e Virgilio osservano il castigo degli avari e dei prodighi. Le due categorie di peccatori sono divise in due schiere, eternamente impegnate a spingere con il petto pesanti massi. Quando si incrociano, si scagliano insulti l'uno contro l'altro per poi tornare sui loro passi e ricominciare il ciclo infinito. Durante il Giudizio Universale, i corpi degli avari saranno segnati da pugni chiusi, simbolo della loro avidità, mentre quelli dei prodighi si presenteranno con il capo rasato, a rappresentare lo spreco delle loro risorse.
La Fortuna (vv. 67-96)
Nel corso del viaggio, Dante sente Virgilio menzionare la Fortuna e gli chiede di chiarirne la natura. Virgilio spiega che, così come Dio ha assegnato agli angeli il compito di guidare i moti dei cieli, ha affidato alla Fortuna l'incarico di distribuire e regolare i beni terreni, come la ricchezza, la fama e il potere. Questo continuo mutamento, incomprensibile agli uomini, segue un ordine divino. Nonostante molti la maledicano, la Fortuna compie il suo dovere, immune dalle accuse e dai giudizi umani.
Discesa al Quinto Cerchio (vv. 97-130)
Attraversato il quarto cerchio, i due viaggiatori giungono al quinto, dove scorrono acque torbide che alimentano la palude Stigia. Qui si trovano i dannati colpevoli di ira, immersi nelle acque e impegnati a colpirsi e mordersi l'un l'altro con ferocia. Sotto di loro, completamente sommersi nel fango, si trovano gli accidiosi, che, avendo represso la propria ira in vita, ora esprimono il loro tormento con lamenti che fanno ribollire l'acqua. Continuando lungo le rive dello Stige, Dante e Virgilio arrivano infine ai piedi di una torre.
Figure Retoriche
v. 7: "'nfiata labbia": Sineddoche. Il termine "labbia" sta per "labbro", il significato è "volto gonfio di ira".
vv. 13-15: "Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele": Similitudine.
vv. 22-24: "Come fa l'onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, così convien che qui la gente riddi": Similitudine.
v. 31: "Così tornavan per lo cerchio tetro": Allitterazione della r.
v. 33: "Ontoso metro": Metonimia.
v. 84: "Che è occulto come in erba l'angue": Similitudine.
v. 86: "Questa provede, giudica, e persegue": Climax ascendente.
vv. 112-114: "Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano": Climax ascendente.
vv. 112-113: "Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi": Enumerazione.
v. 122: "L'aere dolce che dal sol s'allegra": Allitterazione della l.
v. 125: "Gorgoglian": Onomatopea.
vv. 121-126: "Tristi, aere, allegra, portando, dentro, or, attristiam, negra, gorgoglian, strozza": Allitterazione della r.
Personaggi Principali
Pluto, custode del IV Cerchio dell'Inferno dedicato agli avari e ai prodighi, compare all'inizio del Canto VII dell'Inferno in una forma enigmatica. La sua identificazione rimane incerta: potrebbe rappresentare Pluto, il dio greco della ricchezza, figlio di Iasione e Demetra, oppure Plutone, il dio romano degli Inferi e marito di Proserpina. Tuttavia, la seconda ipotesi appare più plausibile, dato che nel Medioevo Plutone, noto anche come Dite, veniva spesso associato a una figura diabolica e collegato ai tesori nascosti sottoterra.
Dante gli attribuisce un'esclamazione misteriosa e apparentemente incomprensibile all'inizio del canto, forse un'invocazione a Lucifero o Satana. Virgilio lo definisce un "maladetto lupo", ma non è chiaro se il demone abbia effettivamente un aspetto animalesco o se questa scelta sia semplicemente simbolica. Nel mito classico, infatti, né Pluto né Plutone sono descritti come lupi, rendendo la rappresentazione dantesca originale e ambigua.
Come accaduto con Caronte e Minosse, Virgilio riesce a calmare Pluto utilizzando una formula di comando autoritaria, sufficiente a neutralizzare la sua aggressività. Dante lo descrive come una fiera crudele, un termine già usato per Cerbero, sottolineando la natura mostruosa e minacciosa della figura. Nel verso 115 del Canto VI, Pluto viene inoltre indicato come il gran nemico, un'espressione che rafforza la sua connotazione demoniaca, poiché lo stesso appellativo era attribuito a Lucifero.
Infine, la scelta di Dante potrebbe essere influenzata dall'associazione tra l'avarizia e la lupa, già introdotta nel Canto I dell'Inferno e ripresa nel Canto XX del Purgatorio. Questo collegamento potrebbe spiegare perché Pluto venga descritto in termini che evocano sia l'avidità che il peccato, offrendo così una rappresentazione simbolica che combina elementi mitologici e cristiani.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto VII dell'Inferno affronta in gran parte il tema dell'avarizia, considerata da Dante il peccato fondamentale alla base di tutti i mali, come accennato già nel primo canto. Questo vizio rappresenta, secondo il poeta, la principale causa del disordine morale e politico simboleggiato dalla "selva oscura". Nel IV Cerchio, l'avarizia è incarnata da Pluto, guardiano demoniaco dalla natura animalesca, che ricorda la lupa incontrata da Dante nel primo canto. Tuttavia, l'origine di questa trasformazione del dio classico è incerta, così come non è chiaro se Dante si riferisca al dio greco delle ricchezze o a Plutone, il signore dell'oltretomba. Come avviene spesso nell'Inferno, Pluto tenta inutilmente di ostacolare il cammino di Dante, venendo prontamente zittito da Virgilio con un richiamo all'ineluttabilità del volere divino, che sembra includere un riferimento all'arcangelo Michele, punitore di Lucifero. La descrizione di Pluto, che si acquieta come una vela quando il vento cala, potrebbe simboleggiare l'inconsistenza della sua minaccia.
Avari e prodighi: due peccati opposti
Il cuore del canto è dedicato agli avari e ai prodighi, puniti in un grottesco supplizio che li costringe a spingere massi in un moto continuo e insensato, mentre si scambiano insulti che rivelano i loro peccati opposti. Questa è l'unica area dell'Inferno dove Dante distingue chiaramente due peccati contrapposti, secondo il principio aristotelico della giusta misura (in medio stat virtus). Gli avari sono stati eccessivamente attaccati alle ricchezze, mentre i prodighi hanno sprecato con troppa leggerezza. Questa distinzione è diversa da quella degli scialacquatori, che troveremo nel VII Cerchio, e verrà riproposta nella V Cornice del Purgatorio, dove si analizzerà nuovamente il tema senza però fornire una risposta definitiva sulla sua validità generale.
Tra gli avari, Dante nota un gran numero di figure ecclesiastiche, riconoscibili dalla tonsura, inclusi papi e cardinali, a dimostrazione della diffusa corruzione nelle alte gerarchie della Chiesa. Virgilio spiega che la cupidigia cieca li ha condotti alla dannazione e che, dopo il Giudizio Universale, risorgeranno col pugno chiuso o coi capelli tagliati, simboli eterni della loro colpa. In questo passo, Dante non fa nomi specifici, forse per prudenza, considerando la delicatezza del tema. Tuttavia, in altri canti non esiterà a denunciare direttamente papi corrotti, come Niccolò III tra i simoniaci o Giovanni XXII nel Paradiso.
La Fortuna come ministro divino
Il discorso di Virgilio sulla Fortuna introduce una visione medievale di questa figura. Non è vista come una dea capricciosa, ma come un'intelligenza angelica che esegue il volere divino, distribuendo ricchezze e potere in base a un disegno provvidenziale incomprensibile all'uomo. Questa concezione contrasta con quella classica e umanistica, che identificava la Fortuna con il caso, subordinandola alla virtù e al libero arbitrio umano. Virgilio ribadisce che la vera salvezza non dipende dalle ricchezze materiali, transitorie e inutili per il destino eterno dell'uomo.
Gli iracondi nella palude Stigia
Nella parte finale del canto, Dante e Virgilio giungono alla palude Stigia, dove sono puniti gli iracondi. Tra questi, vi sono gli "accidiosi", ossia coloro che hanno covato risentimento e vendetta senza esprimerli apertamente. Essi sono immersi sott'acqua e pronunciano parole che fanno ribollire la superficie della palude, ammettendo il loro peccato. La scena rimane sospesa, creando un senso di attesa che verrà risolto nel canto successivo con l'apparizione di Flegiàs, il traghettatore infernale.
La Fortuna nel pensiero rinascimentale: Machiavelli
La visione dantesca della Fortuna come ministro divino subisce un'evoluzione nel pensiero umanistico. Nel Decameron, Boccaccio la rappresenta come il semplice caso, opponibile attraverso l'ingegno umano. Questa concezione anticipa l'approccio rinascimentale, che valorizza l'autodeterminazione e il libero arbitrio.
Tra gli autori che reinterpretano la Fortuna spicca Machiavelli, il quale, nel capitolo XXV del Principe, la paragona a un fiume in piena che può essere arginato con le giuste precauzioni. Per il filosofo, la fortuna determina metà delle vicende umane, mentre l'altra metà è governata dal libero arbitrio. L'uomo politico deve essere flessibile e pronto ad adattarsi alle circostanze mutevoli, come dimostra il caso del duca Valentino (Cesare Borgia), la cui rovina derivò dalla morte improvvisa del padre, papa Alessandro VI.
Machiavelli sostiene che la fortuna favorisca i giovani audaci e impetuosi, paragonandola a una donna che va "presa a forza". Questo approccio, improntato all'antropocentrismo e al pragmatismo, è radicalmente distante dalla concezione medievale di Dante, rappresentando una visione più moderna e vicina alla nostra epoca.
Passi Controversi
Il verso 1 ha dato origine a numerose interpretazioni critiche. È improbabile che le parole di Pluto siano prive di significato; più plausibilmente si tratta di un'invocazione rivolta a Satana-Lucifero, di cui Pluto potrebbe essere una figura allegorica. Secondo questa lettura, l'espressione potrebbe significare qualcosa come: «Oh, Satana, oh, Satana, re dell'Inferno». Alcuni studiosi hanno individuato possibili influenze dal francese, greco, ebraico e persino dall'arabo. Virgilio, come già accaduto con Caronte e Minosse, zittisce Pluto utilizzando una formula autoritaria.
Nei versi 11-12 si fa riferimento alla punizione inflitta a Lucifero e agli angeli ribelli da parte dell'arcangelo Michele. Il termine struppo sembra derivare da "stupro" nel senso di ribellione. Al verso 14, il verbo fiacca è stato interpretato in due modi: secondo alcuni indica che l'albero "si spezza", mentre altri sostengono che il soggetto sia il vento, attribuendo al verbo un valore transitivo.
Il termine lacca nel verso 16 è poco comune e indica una "discesa" o "pendio". Nei versi 22-24, i dannati delle due schiere si muovono in cerchio, come in una danza frenetica simile alla ridda. Questo movimento richiama il moto delle onde che si infrangono tra Scilla e Cariddi nello Stretto di Messina.
La rima composta pur lì al verso 28 si legge come pùrli e si ritrova in altri passi del poema (ad esempio, XXVIII, 123 e XXX, 87). Il verbo burlare (v. 30) significa "far rotolare" e, per estensione, può essere inteso come "sprecare denaro". Questa interpretazione sembra collegarsi al contrappasso, anche se meno esplicito rispetto ad altri casi.
Nel verso 33, anche assume il significato di "ancora". L'espressione mondo pulcro (v. 58) è una metafora per indicare il Paradiso, mentre appulcro (v. 61), neologismo coniato da Dante, deriva dal latino pulcher (bello) e significa "non aggiungo belle parole". Il termine buffa (v. 61) può indicare un "soffio" o "instabilità", ma può anche essere inteso come "beffa", come in Inf., XXII, 133.
I versi 64-66 possono essere interpretati in due modi: o sottolineano che l'avidità dei dannati non si sarebbe mai placata in vita, oppure che ora nemmeno tutto l'oro del mondo potrebbe alleviare la loro sofferenza. Quest'ultima interpretazione appare più convincente.
Al verso 84, il termine angue è un latinismo per "serpente" (cfr. Virgilio, Ecloghe, III, 96: latet anguis in herba). Il termine contasto (v. 85) rappresenta una lettura più difficile rispetto a "contrasto". La spera del verso 96 potrebbe riferirsi al Cielo, simbolo del governo della Fortuna, oppure alla ruota, elemento tradizionale della sua iconografia classica.
Il contrappasso degli iracondi, che si straziano l'un l'altro, richiama il loro comportamento durante la vita (vv. 109 ss.). Tuttavia, il collegamento con il fiume Stige non è del tutto chiaro. Nell'Eneide, infatti, questo fiume circonda per nove volte le anime dei suicidi. Infine, il termine mézzo al verso 128 va inteso come "bagnato".
Fonti: libri scolastici superiori