Parafrasi e Analisi: "Canto VIII" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


L'ottavo canto dell'Inferno di Dante Alighieri segna un ulteriore approfondimento nel viaggio del poeta attraverso il regno dei dannati, in cui le passioni e le debolezze umane trovano la loro eterna condanna. In questo passo, il focus si sposta sull'elemento della discordia civile e sul conflitto che caratterizza non solo i singoli peccatori, ma anche le collettività e i sistemi di potere. L'atmosfera diventa più cupa e tesa, alimentata dalla crescente complessità morale e simbolica delle pene e dalla presenza di figure emblematiche che incarnano la corruzione politica e lo spirito di divisione.

In questo canto, Dante esplora il tema della violenza, non solo fisica ma anche morale, mettendo in evidenza il peso delle scelte umane e delle responsabilità collettive. La riflessione etica si intreccia con la dimensione politica e storica, offrendo un'interpretazione che trascende il contesto individuale per abbracciare quello universale. Lo scenario, dominato da un'atmosfera di tensione e inquietudine, invita il lettore a confrontarsi con i limiti della giustizia umana e divina.


Testo e Parafrasi


Io dico, seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al piè de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima

per due fiammette che i vedemmo porre,
e un'altra da lungi render cenno,
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.

E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».

Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».

Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l'aere snella,
com'io vidi una nave piccioletta

venir per l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».

«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».

Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l'ira accolta.

Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand'io fui dentro parve carca.

Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui.

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».

E io a lui: «S'i' vegno, non rimango;
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».

E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».

Allor distese al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n te s'incinse!

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui furïosa.

Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».

E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».

Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
tal disïo convien che tu goda».

Dopo ciò poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti.

Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».

E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite

fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».

Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.

Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte

va per lo regno de la morta gente?».
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.

Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.

Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta sì buia contrada».

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.

«O caro duca mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,

non mi lasciar», diss'io, «così disfatto;
e se 'l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto».

E quel segnor che lì m'avea menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.

Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».

Così sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.

Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!».

E a me disse: «Tu, perch'io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.

Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.

Sovr'essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,

tal che per lui ne fia la terra aperta».
Riprendendo il discorso (seguitando), dico che molto prima
che giungessimo ai piedi dell'alta torre, i nostri occhi
si rivolsero (n'andar) in alto (suso) verso la sommità,

(attratti) da (per) due fiammelle che vi (i) vedemmo accendere (porre), e
un'altra rispondere al segnale (render cenno) da lontano (da lungi),
tanto che l'occhio poteva (il potea) a fatica (a pena) percepirla (tòrre).

Io mi rivolsi a Virgilio (mar di tutto 'l senno) e dissi: «Che cosa
dice il segnale più vicino (Questo)? E che cosa risponde l'altro
segnale (foco)? E chi sono coloro che li hanno emessi (che 'l fenno)?».

Ed egli: «Lungo (Su per) le acque fangose (sucide) già puoi
intravedere colui che è atteso (che s'aspetta), se la nebbia
(fummo) della palude non te lo (nol ti) nasconde».

La corda (di un arco) non lanciò (pinse) mai da sé una freccia
(saetta) che andasse così veloce (snella) attraverso l'aria (per
l'aere), come io vidi in quel momento (in quella) una piccola imbarcazione

venire nell'acqua verso di noi, guidata (sotto 'l governo) di un
solo marinaio (galeoto), che gridava: «Sei stata finalmente
raggiunta (giunta), anima dannata (fella)!».

«Flegiàs, Flegiàs», disse Virgilio, «tu gridi in vano
(a vòto) per questa volta: ci avrai in tuo potere solo
per attraversare la palude (loto)».

Come chi intende (ascolta) che gli sia stato fatto un grande
inganno e poi se ne rammarica, così divenne (fecesi)
Flegiàs reprimendo l'ira dentro di sé (ne l'ira accolta).

La mia guida discese nella barca e quindi fece
entrare anche me; e solo quando io fui a bordo
(dentro) essa sembrò carica (carca).

Non appena (Tosto che) io e la guida fummo nella barca (legno),
l'antica prua (prora) procede (se ne va) fendendo (segando)
più acqua (de l'acqua più) di quanto sia solita fare (non suol) con altri.

Mentre attraversavamo (corravam) la palude (morta gora), mi apparve
(mi si fece) davanti un dannato pieno di fango, e disse: «Chi sei tu,
che vieni (all'Inferno) ancora vivo (anzi ora = prima del tempo)?».

Ed io: «Se io vengo, però non rimango; ma chi sei tu, che sei
così sporco di fango (fatto brutto)?». Rispose: «Vedi bene che
sono un dannato (un che piango)».

Ed io: «Rimani, spirito maledetto, col tuo pianto e con la tua
pena (lutto); poiché io ti riconosco, benché (ancor) tu sia (sie)
tutto lurido di fango (lordo)».

Allora allungò le mani verso la barca (per rovesciarla); per cui
il maestro lo ricacciò (sospinse) prontamente (accorto), dicendo:
«Vattene (Via costà) con gli altri dannati (cani)!».

Mi cinse quindi il collo con le braccia; mi baciò (basciommi) il
volto e disse: «Anima (Alma) giustamente sdegnosa, benedetta tua madre
(colei che 'n te s'incinse)!

Quel dannato (Quei) fu in terra (al mondo) una persona prepotente
(orgogliosa); non vi è nessun atto di bontà che adorni (fregi) la
sua memoria: per questo (così) il suo spirito (ombra) è qui infuriato (furïosa).

Quanti, nel mondo (là su), si ritengono (si tegnon) grandi personaggi
(gran regi), che qui staranno come porci nel fango (brago), lasciando
spregevoli ricordi (orribili dispregi) di sé!».

Ed io: «Maestro, sarei molto desideroso (vago) di vederlo
immergere (attuffare) in questa melma (broda), prima di uscire
dalla palude (lago)».

Ed egli: «Prima che tu veda l'altra riva (proda),
sarai soddisfatto (sazio): è giusto (convien) che tu
godrai di tale desiderio (disïo)».

Poco dopo vidi fare tale (quello) strazio di costui dai dannati
immersi nel fango (a le fangose genti), che ancora ne lodo e
ringrazio Dio.

Tutti gridavano: «(Dàgli) a Filippo Argenti!»; e l'iracondo
(bizzarro) spirito fiorentino si mordeva (si volvea) da solo (in sé
medesmo) con i denti.

Lo lasciammo lì (Quivi), in modo tale che (che) non ne parlo (narro) più;
ma mi colpì (mi percosse) gli orecchi un lamento doloroso (un duolo), così
che fisso (sbarro) intensamente lo sguardo (l'occhio intento) in avanti.

Il buon maestro disse: «Figliolo, ormai si avvicina la città di
Dite, con i dannati (gravi cittadin) e con il grande numero di
diavoli (stuolo)».

Ed io: «Maestro, già vedo (cerno) distintamente (certe) le sue
torri (meschite) all'interno dell'avvallamento (valle), rosse come
se fossero uscite dal fuoco».

Ed egli mi disse: «Il fuoco eterno che dentro le
arroventa (l'affoca) le fa sembrare (dimostra) rosse,
come tu vedi in questa parte più bassa dell'Inferno».

Noi giungemmo finalmente (pur) all'interno dei profondi
fossati (l'alte fosse) che circondano (vallan) quella città (terra)
sconsolata: le mura mi sembrava che fossero di ferro».

Dopo aver fatto (Non sanza prima far) un ampio giro (grande aggirata),
giungemmo in un punto in cui il nocchiero Flegiàs gridò
fortemente: «Uscite dalla barca (Usciteci), qui è l'ingresso».

Io vidi sulle porte numerosissimi (più di mille) diavoli (da ciel
piovuti), che irosamente (stizzosamente) dicevano: «Chi è costui
che, ancora vivo (sanza morte),

se ne va nel regno dei morti?». E il mio saggio
maestro fece segno di voler loro parlare in
disparte (segretamente).

Allora frenarono (chiusero) un po' la loro grande arroganza
(disdegno) e dissero: «Vieni tu solo, e se ne vada quello che così
arditamente osò entrare in questo regno.

Ritorni da solo per il cammino maledetto (folle strada): ci
provi, se ne è capace (se sa); poiché tu, che lo hai scortato (li
ha' iscorta) in un luogo (contrada) tanto buio, rimarrai qui».

Pensa, lettore, quanto io mi persi d'animo (mi sconfortai) al
suono delle parole maledette, perché pensai di non poter mai
più ritornare sulla terra (ritornarci).

«Mia cara guida, che diverse volte (più di sette volte) mi hai
ridato (renduta) sicurezza (sicurtà) e mi hai tolto (tratto) dai
gravi pericoli (d'alto periglio) che mi stavano davanti ('ncontra),

non mi lasciare», dissi, «così smarrito (disfatto); e se ci viene
negato il passaggio ('l passar più oltre), ritorniamo sui nostri
passi (ritroviam l'orme nostre) rapidamente (ratto)».

E Virgilio (quel segnor) che mi aveva condotto (menato) fin lì,
mi disse: «Non temere; poiché nessuno (alcun) ci può impedire (tòrre) il
nostro cammino (passo): ci viene concesso (n'è dato) da Dio (da tal).

Ma aspettami qui, e conforta e nutri di buona
speranza lo spirito abbattuto (lasso), poiché
io non ti lascerò nell'Inferno (mondo basso)».

Così il dolce padre si allontana abbandonandomi là, ed io rimango
in dubbio (in forse), sicché la speranza (sì) e il timore
(no) si combattono (mi tenciona) nella mente (capo).

Non potei (non potti) udire ciò che disse (porse) loro; ma egli
non stette là con loro a lungo (guari) che ciascuno di essi corse
di nuovo (si ricorse a pruova) dentro le mura.

Quei diavoli (nostri avversari) chiusero le porte in faccia (nel
petto) alla mia guida, che rimase fuori e ritornò (rivolsesi)
verso di me a passi lenti (rari).

Teneva gli occhi bassi (a la terra) e lo sguardo (ciglia) privo (rase)
di ogni sicurezza (baldanza), e diceva sospirando (ne' sospiri):
«Guarda chi mi ha negato l'accesso all'Inferno (dolenti case)!»

E a me disse: «Non meravigliarti (non sbigottir) per il fatto (perch'io) mi
lamenti (m'adiri), perché io vincerò la lotta (prova), chiunque (qual) si dia da
fare (s'aggiri) dentro la città di Dite per impedirci di entrare (a la difension).

Questo loro atteggiamento tracotante non è nuovo; poiché lo
adottarono (l'usaro) già presso la porta dell'Inferno (men
segreta porta), la quale (da allora) è ancora spalancata (sanza serrame).

Su di essa (Sovr'essa) tu hai visto (vedestù) la scritta oscura (morta):
e già oltre quella (di qua da lei) sta scendendo il pendio (l'erta),
attraversando (passando per) i cerchi senza guida (scorta),

un essere tale (il messo celeste) che per suo intervento (per lui) la città (terra) ci verrà (ne fia) aperta.



Riassunto


L'arrivo di Flegiàs (vv. 1-30)
Mentre Dante e Virgilio si avvicinano alla torre, notano un segnale luminoso, al quale risponde un'altra luce in lontananza. Virgilio invita Dante a osservare verso la palude, dove si avvicina rapidamente una barca guidata da Flegiàs, il demonio che rappresenta l'ira e ne è il custode nel quinto cerchio dell'Inferno. Credendo che Dante sia un'anima dannata, Flegiàs lo accoglie con fare minaccioso, ma viene subito disilluso da Virgilio, che lo costringe a imbarcare entrambi.

L'incontro con Filippo Argenti (vv. 31-63)
Durante la traversata, un'anima emerge dal fango: è Filippo Argenti, un fiorentino noto in vita per la sua arroganza. Dante lo riconosce e lo insulta con parole sprezzanti. Quando il dannato cerca di afferrare rabbiosamente la barca, Virgilio lo respinge e si complimenta con Dante per il suo atteggiamento deciso. A quel punto, Dante esprime il desiderio di vederlo sprofondare nel fango, desiderio che si realizza poco dopo, quando altri dannati si avventano su Argenti, che per la rabbia impotente si morde le carni.

La Città di Dite (vv. 64-81)
Proseguendo, la barca si avvicina alla Città di Dite, che segna il confine con il basso Inferno, dove vengono puniti i peccati più gravi. Attraverso la nebbia si intravedono le torri rosse, arroventate dal fuoco eterno, e le mura metalliche che proteggono la città. Una volta giunti davanti alle mura, Flegiàs fa scendere bruscamente i due poeti.

Il confronto con i diavoli (vv. 82-130)
Appena sbarcati, più di mille diavoli si avvicinano minacciosamente, ordinando a Dante di tornare indietro da solo. Virgilio tenta di convincerli senza successo, mentre Dante, spaventato, propone di abbandonare il viaggio. Virgilio lo rassicura e decide di affrontare i diavoli da solo, ma questi sbarrano la porta della città e lo lasciano fuori. Tornato da Dante, Virgilio ammette che l'ostilità dei diavoli non è una novità: avevano già tentato di opporsi a Cristo durante la sua discesa agli Inferi, ma furono sconfitti e la porta principale rimane tuttora spalancata. Virgilio conclude spiegando che un angelo celeste è già in cammino per superare la barriera e permettere loro di entrare nella Città di Dite.


Figure Retoriche


v. 11: "Già scorgere puoi": Anastrofe.
vv. 13-16: "Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l'aere snella, com'io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella": Similitudine.
vv. 22-24: "Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegiàs ne l'ira accolta": Similitudine.
v. 37: "Con piangere e con lutto": Dittologia.
v. 43: "Lo collo poi con le braccia mi cinse": Anastrofe.
v. 45: "Che 'n te s'incinse": Pleonasmo.
v. 50: "Qui staranno come porci in brago": Similitudine.
vv. 55-56: "Avante che la proda ti si lasci veder": Metonimia.
v. 72: "Vermiglie come se di foco uscite": Similitudine.
v. 91: "Sol si ritorni": Pleonasmo.
v. 112: "Udir non potti": Anastrofe.
vv. 115-116: "Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor": Metonimia.
vv. 1-2, vv. 73-74, vv. 97-98, vv. 104-105, vv. 118-119: Enjambements.


Personaggi Principali


Nel cerchio degli iracondi, un personaggio inizialmente senza nome emerge come rappresentante simbolico di questa categoria di peccatori. La sua natura rabbiosa si manifesta in due momenti distinti: prima tenta inutilmente di rovesciare la barca su cui viaggiano Dante e Virgilio, poi si abbandona a un gesto di furia autolesionistica, mordendosi con rabbia mentre gli altri dannati lo scherniscono e gridano il suo nome, rivelandone così l'identità. Si tratta di Filippo Argenti, e la reazione di Dante nei suoi confronti è decisamente diversa rispetto a quella avuta con altri dannati incontrati nei cerchi precedenti, come Paolo e Francesca o Ciacco, per i quali aveva provato compassione e versato lacrime.

Con Filippo Argenti, invece, Dante esprime un senso di soddisfazione nell'assistere alla sua punizione e, per la prima volta, manifesta un sentimento di vendetta. Virgilio approva e loda questa reazione, ritenendola appropriata nei confronti del peccatore. L'odio di Dante verso Filippo Argenti potrebbe trovare spiegazione nelle vicende personali e politiche: Filippo era un Guelfo di parte Nera, avversario politico di Dante, che apparteneva invece alla fazione dei Guelfi Bianchi. Inoltre, si oppose al rientro del poeta a Firenze dopo l'esilio e la sua famiglia sottrasse parte dei beni degli Alighieri. Questi elementi rendono comprensibile il disprezzo di Dante per questo personaggio, che incarna non solo il vizio dell'ira ma anche le rivalità e le ingiustizie che contribuirono al dolore personale del poeta.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto VIII dell'Inferno di Dante è un momento cruciale della narrazione, segnato da intensi episodi che si sviluppano intorno al tema centrale dell'ira e dell'elemento del fuoco, simboli connessi al peccato degli iracondi. La struttura del canto si articola in tre momenti fondamentali: l'arrivo del demone Flegiàs, l'incontro con Filippo Argenti e l'approdo alla città di Dite. Questi episodi sono legati da un comune filo conduttore che approfondisce il tema del peccato e le sue manifestazioni.

L'apparizione di Flegiàs e il simbolismo del fuoco
Il canto si apre riprendendo gli eventi conclusivi del precedente, con la descrizione di una torre che scambia segnali luminosi con un'altra all'interno della palude Stigia. Il significato di questi segnali resta misterioso, ma sembrano richiamare il demone Flegiàs, il traghettatore della palude. Quest'ultimo, avvolto in un'ira incontrollata, giunge rapidamente sulla sua barca, esprimendo il suo disappunto nel dover trasportare un vivo come Dante. La figura di Flegiàs, il cui nome etimologicamente richiama il fuoco (come il Flegetonte, il fiume di sangue bollente), è una reinterpretazione deformata del mito classico: nella tradizione greca, infatti, Flegiàs aveva incendiato il tempio di Apollo a Delfi come atto di vendetta. Nonostante la sua resistenza, Flegiàs è costretto dalla volontà divina a condurre Dante e Virgilio attraverso lo Stige.

L'incontro con Filippo Argenti: il dramma dell'ira
Il cuore del canto è rappresentato dal tempestoso incontro con Filippo Argenti, un dannato fiorentino appartenente alla famiglia degli Adimari, noti oppositori di Dante. L'episodio si distingue per la sua intensità drammatica e per il dialogo serrato, che ricorda una tenzone della poesia comico-realistica. Filippo Argenti, furioso e arrogante, rifiuta inizialmente di rivelare il proprio nome, ma la sua identità viene smascherata da Dante, che non esita a insultarlo e a invocare una punizione divina. Questo scontro, oltre a rievocare rivalità personali e politiche dell'epoca, assume una dimensione simbolica: Dante non condanna solo un nemico personale, ma tutta una categoria di uomini tracotanti e violenti, colpevoli di alimentare le discordie civili.

La drammaticità del momento culmina con i dannati che si avventano su Argenti, smembrandolo in un'atroce punizione. Virgilio, approvando l'odio del discepolo, lo benedice, celebrando la giustizia divina che assegna a ciascuno il proprio destino: un monito per i superbi che, nella vita terrena, si credono potenti ma che nell'aldilà finiscono sommersi nel fango.

La città di Dite: il confine dell'Inferno vero e proprio
L'ultima parte del canto introduce la città di Dite, un'imponente fortezza medievale con torri e mura rosse per il fuoco che brucia al suo interno. Questo luogo segna l'ingresso nella parte più profonda dell'Inferno, dove si trovano le anime dei peccatori colpevoli di eresia, violenza e frode, peccati che coinvolgono anche la ragione umana. La descrizione di Dite richiama l'immagine di una città islamica, con moschee che svettano all'orizzonte, un dettaglio che sottolinea il carattere esotico e inquietante del luogo.

L'opposizione dei diavoli e il fallimento di Virgilio
Dante e Virgilio si trovano presto di fronte a un ostacolo insormontabile: i diavoli di Dite, furiosi per l'arrivo di un vivo, chiudono loro la porta in faccia. Questo episodio segna un punto di svolta nel poema, poiché per la prima volta Virgilio, simbolo della ragione, si mostra incapace di proseguire da solo. La sua autorità, già affermata contro figure come Minosse, Cerbero e Pluto, vacilla di fronte all'ostinata resistenza dei demoni. Il fallimento di Virgilio, umanissimo nei suoi stati d'animo mutevoli – dalla sicurezza iniziale alla delusione e infine alla rinnovata fiducia – prepara l'ingresso in scena di una forza superiore: il Messo celeste.

L'intervento divino e il significato allegorico
L'arrivo del Messo, che sarà narrato nel canto successivo, è un evento straordinario che simboleggia l'intervento della grazia divina, necessaria per superare gli ostacoli che la ragione, da sola, non può affrontare. Questo richiamo alla discesa di Cristo nell'Inferno, durante la resurrezione, enfatizza il tema della lotta tra bene e male. Dite diventa così il simbolo della resistenza ultima del peccato, mentre il superamento delle sue mura prefigura la vittoria della salvezza.

Una narrazione vivace e dinamica
Il Canto VIII si distingue per la sua vivacità e il ritmo serrato. L'azione si sposta rapidamente: dall'arrivo di Flegiàs all'attraversamento dello Stige, dall'incontro con Argenti allo scontro con i diavoli. Questo dinamismo, unito alla profondità allegorica e drammatica degli eventi, fa di questo canto uno dei più memorabili dell'intero poema.


Passi Controversi


All'inizio del canto, le due torri che si scambiano segnali luminosi non hanno una funzione chiaramente definita. Si può supporre che servano a richiamare Flegiàs e la sua barca, ma il ruolo di questo personaggio resta ambiguo. Potrebbe essere il traghettatore delle anime iraconde nella palude dello Stige, degli eresiarchi verso la città di Dite, oppure di tutte le anime dirette verso i cerchi inferiori dell'Inferno. Al verso 21, il termine "loto" si riferisce al fango della palude stigia, mentre il verso 27, che descrive l'affondamento della barca di Flegiàs al momento in cui vi sale Dante con il suo corpo fisico, richiama un passaggio dell'Eneide (VI, 413-414).

Lo scambio verbale tra Dante e Filippo Argenti (vv. 33-39) richiama la tradizione della poesia comica e assume la forma di una sorta di "tenzone". Filippo predice la dannazione di Dante, ma il poeta replica con fermezza, sottolineando che la sua presenza nell'Inferno è temporanea, contrariamente a quella del dannato. Quando Dante chiede il nome del personaggio, inizialmente irriconoscibile per il fango che lo ricopre, questi si definisce semplicemente come "uno che piange". La risposta di Dante è sprezzante, ribadendo che è giusto che egli resti immerso nel dolore eterno. Un dialogo simile, seppur in un registro più elevato, si ritroverà nel Canto X con Farinata.

Al verso 65, il termine "duolo" sembra riferirsi ai lamenti dolorosi provenienti dalla città di Dite. La descrizione delle sue torri e mura, illuminate da fiamme eterne, le paragona alle moschee delle città islamiche (v. 70), un chiaro segno della condanna medievale del Cristianesimo verso l'Islam. L'allitterazione della lettera "f" (ad esempio in foco uscite, fossero, il foco etterno) contribuisce a rendere la descrizione particolarmente incisiva. Le "alte fosse" (v. 76) sono probabilmente i profondi fossati che circondano la città, un'immagine che richiama le fortificazioni delle cittadelle medievali.

Al verso 96, l'espressione "ritornarci" indica il ritorno sulla Terra, con il suffisso -ci che funge da avverbio di luogo. Virgilio spera inizialmente di convincere i diavoli a lasciarli passare, ma il suo tentativo fallisce (vv. 112-120), lasciandolo visibilmente frustrato, come accadrà anche nei Canti XXI, XXII e XXIII con i Malebranche.

I versi 125-126 fanno riferimento alla discesa di Cristo nell'Inferno dopo la resurrezione, per liberare le anime dei patriarchi biblici dal Limbo. La porta menzionata da Virgilio è quella dell'Inferno descritta nel Canto III, che Cristo aveva abbattuto, lasciandola "sanza serrame", ovvero priva di chiusura. Infine, al verso 130 si introduce la figura del messo celeste, che sta per scendere nell'Inferno per ristabilire l'ordine e imporre la propria autorità sui demoni della città di Dite.

Fonti: libri scolastici superiori

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