Parafrasi e Analisi: "Canto IX" - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il nono canto dell'Inferno rappresenta un momento di transizione cruciale nel viaggio di Dante, in cui si passa dai cerchi superiori, legati ai peccati di incontinenza, a quelli inferiori, dominati da colpe più gravi come la malizia e la frode. Questo canto si colloca alle porte della città di Dite, simbolo di corruzione e malvagità, segnando un confine netto tra i diversi gradi del peccato. Il tema principale è l'ingresso nel cuore più oscuro della colpa umana, dove il peccato non si limita al cedimento alle passioni, ma diventa atto deliberato e consapevole di perversione morale.
Il contesto si fa più drammatico, e la narrazione assume toni visionari e apocalittici, evidenziando il contrasto tra la fragilità umana e la forza divina. È anche un momento di riflessione sulla conoscenza e sull'autorità, con un confronto diretto tra le forze del bene e del male che si manifesta attraverso immagini di grande intensità simbolica. Il canto offre quindi un'occasione per meditare sul ruolo della fede e sull'intervento divino nella lotta contro il male, preparando il lettore a un'immersione sempre più profonda nei misteri dell'Inferno.
Testo e Parafrasi
Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermò com'uom ch'ascolta; ché l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta. «Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!». I' vidi ben sì com'ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perch'io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. «In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?». Questa question fec'io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver è ch'altra fïata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell'è 'l più basso loco e 'l più oscuro, e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so 'l cammin; però ti fa sicuro. Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u' non potemo intrare omai sanz'ira». E altro disse, ma non l'ho a mente; però che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furïe infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. Quest'è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme, e gridavan sì alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto. «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Tesëo l'assalto». «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso». Così disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani. E già venia su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetüoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz'alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo». Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid'io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell'aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell'angoscia parea lasso. Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta, e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno. «O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l'orribil soglia, «ond'esta oltracotanza in voi s'alletta? Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo». Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante. Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com'io fui dentro, l'occhio intorno invio; e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio. Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt'il loco varo, così facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era più amaro; ché tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun'arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi. E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell'arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?». Ed elli a me: «Qui son li eresïarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi ch'a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martìri e li alti spaldi. |
Quel pallore (color) che mi spinse fuori (pinse) la viltà sul volto (di fuor) vedendo (veggendo) la mia guida tornare indietro (in volta), al più presto (più tosto) fece tornare dentro (ristrinse) il suo colore (il suo novo, ossia il rossore del cruccio), appena comparso (novo). Si fermò attento come chi (com'uom) ascolta; poiché la vista (l'occhio) non lo (nol) poteva condurre (menare) a vedere lontano (a lunga), a causa (per) dell'oscurità e del fumo denso (nebbia folta). «Eppure (Pur) accadrà necessariamente (converrà) che noi vinceremo lo scontro (punga)», cominciò egli, «a meno che (se non)... Un protettore tanto potente (Tal) ci si presentò (ne s'offerse). Oh quanto tardi mi sembra arrivare quaggiù il Messo celeste (altri)!» Io ben mi accorsi di come egli nascose (ricoperse) ciò che aveva cominciato (lo cominciar) con quanto seguì (con l'altro che poi venne), che furono parole ben diverse dalle prime; ma nondimeno il suo dire determinò in me (dienne) paura, perché io attribuivo (traeva) alla sua reticenza (parola tronca) un significato (sentenzia) forse peggiore di quanto non avesse (che non tenne). «Nel fondo della cavità infernale (trista conca) scende mai qualcuno del primo cerchio (grado: il Limbo), che come (per) pena ha solo la speranza troncata (cionca)?». Tale domanda (question) posi io; ed egli mi rispose: «Accade (incontra) di rado che qualcuno (alcun) di noi (le anime del Limbo) percorra (faccia) il cammino per il quale sto andando io. In verità io venni qui un'altra volta (fïata), costretto con scongiuri (congiurato) da quella crudele (cruda) maga Eritone, che faceva ritornare (richiamava) le anime (l'ombre) ai loro (sui) corpi. Il mio corpo (carne) era da poco rimasto privo (nuda) dell'anima (= ero morto da poco) che ella mi fece entrare dentro le mura (della Città di Dite), per trarne uno spirito del nono cerchio (cerchio di Giuda: la Giudecca). Quello è il luogo più basso e più oscuro (dell'Inferno), e il più lontano dal Primo Mobile (dal ciel che tutto gira: dal cielo che avvolge tutti gli altri cieli); conosco pertanto bene (ben so) la strada; perciò (però) sta (ti fa) sicuro. Questa palude (lo Stige) che emana grande fetore (puzzo) cinge (cigne) tutt'intorno la Città di Dite (città dolente), dove (u') ormai non possiamo (potemo) entrare senza contrasto (sanz'ira)». Disse anche altre cose, ma non le ricordo (non l'ho a mente); perché lo sguardo aveva attratto tutta la mia attenzione verso l'alta torre dalla cima infuocata (rovente), dove in un istante (in un punto) si furono drizzate (furon dritte) improvvisamente (ratto) tre furie infernali tinte di sangue, che avevano (avieno) membra e atteggiamenti (atto) femminili, ed erano cinte di serpenti (idre) verdissimi; al posto dei capelli (per crine) avevano (avien) serpentelli e serpi cornute (ceraste), di cui erano avvinte le tempie orribili (fiere). E Virgilio (quei), che ben riconobbe le serve (meschine) della regina (Proserpina) dell'Inferno (de l'etterno pianto), mi disse: «Guarda le feroci Erinni (Erine). Quella sul lato (canto) sinistro (della torre) è Megera; quella che si lamenta (piange) sul lato destro è Aletto; al centro è Tesifone»; e quando ebbe detto ciò (a tanto) tacque. Ciascuna di esse si graffiava (si fendea) il petto con gli artigli; si percuotevano (battiensi) con le palme e gridavano così forte (sì alto) che io mi strinsi al poeta per timore (per sospetto). «Venga Medusa: così lo faremo diventare ('l farem) di pietra (di smalto)», dicevano tutt'e tre guardando in basso (giuso); «facemmo male a non vendicare (mal non vengiammo) contro (in) Teseo il suo assalto». «Voltati indietro e tieni gli occhi (lo viso) chiusi; perché se Medusa ('l Gorgón) appare (si mostra) e tu la guardassi, sarebbe impossibile (nulla sarebbe) ritornare sulla terra (suso)». Così disse il maestro; ed egli stesso (elli stessi) mi voltò, e non si accontentò (non si tenne) delle mie mani, ma mi coprì gli occhi (non mi chiudessi) anche con le sue. O voi che avete la mente capace di intendere la verità (li 'ntelletti sani), ammirate l'insegnamento morale (dottrina) che si cela (s'asconde) sotto il velo (velame) di questi versi inconsueti (strani). E già stava giungendo (già venìa) lungo l'acqua fangosa (su per le torbide onde) un suono fragoroso (un fracasso d'un suon), spaventoso (pien di spavento), per cui le rive opposte (amendue le sponde [dello Stige]) tremavano, non diverso (non altrimenti fatto) da quello di un turbine (vento) impetuoso per l'incontro tra masse d'aria di diversa temperatura (per li avversi ardori), che colpisce (fier) la selva e senza alcun ostacolo (rattento) schianta i rami, li abbatte e li scaglia lontano (porta fori); solleva superbamente la polvere davanti a sé, e fa fuggire animali (fiere) e uomini (pastori). (Virgilio) mi tolse le mani (mi sciolse) dagli occhi e disse: «Ora dirigi (drizza) l'acume della vista (il nerbo del viso) sulla schiumosa superficie della palude antica (su per quella schiuma antica), verso quella parte (per indi) in cui il fumo è più fastidioso (acerbo)». Come le rane, di fronte alla biscia, loro naturale avversario (nimica), si dileguano tutte per l'acqua, finché ciascuna (per mimetizzarsi) si rannicchia su se stessa (s'abbica) nel fondo (a la terra), così io vidi moltissimi (più di mille) dannati (anime distrutte) fuggire dinanzi al Messo celeste (un), che camminando passava lo Stige con i piedi (piante) asciutti. Scacciava (rimovea) dal volto quel fumo denso (aere grasso), muovendo (menando) spesso la mano sinistra; e sembrava affaticato (lasso) solo a causa di questo fastidio (angoscia). Mi accorsi senza dubbio che questi era un angelo mandato (messo) dal cielo, e mi rivolsi al maestro; ed egli mi fece segno di tacere (ch'i' stessi queto) e di inchinarmi a lui. Quanto sdegnoso mi sembrava! Andò presso la porta e l'aprì con una verghetta, in modo tale che (che) non ebbe nessuna resistenza (ritegno). «O cacciati dal cielo, gente disprezzata da Dio (dispetta)», cominciò (a dire) sulla soglia orribile della porta, «da dove proviene (ond') questa (esta) superbia (oltracotanza) che si raccoglie (s'alletta) in voi? Perché vi opponete (recalcitrate) al volere divino (quella voglia) il cui fine non può (non puote) mai essere impedito (mozzo = troncato), e che anche in altre occasioni (più volte) vi ha fatto accrescere la pena (doglia)? A che vi serve (Che giova) contrastare (dar di cozzo) i decreti divini (fata)? Se ben ricordate, il vostro Cerbero ne porta ancora spelacchiato (pelato) il mento e il gozzo». Poi si rivolse verso la via fangosa dello Stige (strada lorda), e non ci rivolse alcuna parola (non fé motto), ma apparve nell'aspetto esteriore (fé sembiante) come uno legato (cui... stringa) e stimolato (e morda) da tutt'altra preoccupazione (altra cura) rispetto a quella di colui che gli sta davanti; e noi ci dirigemmo (movemmo i piedi) verso la Città di Dite (la terra), sicuri dopo (appresso) le parole del Messo (parole sante). Entrammo dentro (li) senza alcuna opposizione (guerra); ed io, che avevo desiderio (disio) di vedere attentamente (riguardar) la natura del luogo e delle pene (condizion) che la Città di Dite (tal fortezza) racchiude (serra), appena fui entrato, osservo (l'occhio... invio) da ogni parte (intorno): e vedo (veggio) dovunque (ad ogne man) un'immensa pianura (campagna), piena di dolore (duolo) e di atroce (rio) tormento. Come presso Arles (Arli), dove ristagna il Rodano, e come presso Pola, vicino al golfo del Quarnaro (Carnaro), che chiude (a nordest) l'Italia e bagna i suoi confini (termini), i sepolcri rendono (fanno) vario (varo) tutto il terreno (loco), così avveniva (facevan) laggiù (quivi) in ogni parte, ma (salvo che) il loro aspetto ('l modo) era ben più doloroso (amaro); poiché intorno (tra) ai sepolcri (avelli) erano sparse (sparte) delle fiamme, per le quali essi erano talmente (sì del tutto) arroventati (accesi) che nessuna opera di fabbro (verun'arte) richiede ferro più (rovente). Tutte le coperture dei sepolcri (lor coperchi) erano sollevate (sospesi), e ne uscivano lamenti così strazianti (duri) che sembravano senza dubbio (ben) di spiriti infelici (miseri) e tormentati (offesi). Ed io: «Maestro, chi sono quei dannati che, sepolti in quei sarcofagi (arche), si fanno sentire attraverso i loro dolorosi lamenti (sospiri dolenti)?». Ed egli: «Qui sono sepolti gli eretici (eresïarche) con tutti i loro seguaci, di ogni setta, e le tombe sono piene di dannati (carche) molto più di quanto tu non creda. Qui sono sepolti insieme i seguaci di una stessa setta (Simile... con simile), e i sepolcri (monimenti) sono più o meno roventi (caldi)». E dopo che si fu voltato (vòlto) verso destra, passammo tra le arche infuocate (i martìri) e le alte mura (spaldi) della Città di Dite. |
Riassunto
vv 1-33: Il timore di Dante e il conforto di Virgilio
Dante, sempre più agitato dall'attesa del Messaggero Celeste, figura che rappresenta la necessità dell'intervento della Grazia divina quando la ragione si rivela insufficiente, si rivolge a Virgilio con una domanda. Vuole sapere se le anime del Limbo abbiano accesso al basso Inferno, cercando così di capire se la sua guida conosca realmente il percorso. Virgilio, intuendo il motivo della domanda, rassicura Dante e gli ricorda che lui stesso è già disceso in quei luoghi, su richiesta della maga Erittone.
vv 34-60: L'arrivo delle Furie e il pericolo di Medusa
D'improvviso, sulla torre della città di Dite appaiono le spaventose Furie, che con gesti drammatici si graffiano il petto e invocano Medusa affinché, con il suo sguardo pietrificante, metta fine all'intrusione di Dante. Virgilio, consapevole del pericolo, avverte il suo compagno e gli copre gli occhi con le mani, proteggendolo da una visione letale.
vv 61-105: L'arrivo del Messaggero Celeste
Un forte rumore annuncia l'arrivo dell'angelo, che con una bacchetta spalanca con decisione le porte della città di Dite. Egli rimprovera severamente i diavoli, accusandoli di aver osato ostacolare, inutilmente, il volere divino.
vv 106-133: L'ingresso al sesto cerchio dell'Inferno
Oltre le mura, il sesto cerchio dell'Inferno si apre come una desolata pianura che ricorda un cimitero disseminato di tombe infuocate. Dalle tombe, tutte con i coperchi sollevati, si levano gemiti e sospiri: sono gli eretici, confinati in questo luogo. Virgilio spiega la loro pena a Dante, e insieme si incamminano lungo uno stretto sentiero che corre tra le tombe e le alte mura della città.
Figure Retoriche
v. 1: "Di fuor mi pinse": Anastrofe.
v. 2: "Il duca mio": Anastrofe.
v. 3: "Più tosto dentro il suo novo ristrinse": Anastrofe.
v. 107: "Di riguardar disio": Anastrofe.
v. 4: "Attento si fermò com'uom ch'ascolta": Similitudine.
v. 16: "Trista conca": Perifrasi.
v. 25: "Di poco era di me la carne nuda": Sineddoche.
v. 52: "Vegna Medusa": Apostrofe.
vv. 76-81: "Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid'io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte": Similitudine.
vv. 112-117: "Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, 114 fanno i sepulcri tutt'il loco varo, così facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era più amaro": Similitudine.
vv. 5-6, vv. 19-20, vv. 35-36, vv. 37-38, vv. 58-59, vv. 64-65, vv. 67-68, vv. 73-74, vv. 86-87: Enjambements.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto IX: La Città di Dite e la Lotta tra Bene e Male
Il Canto IX dell'Inferno di Dante si apre come naturale continuazione del precedente, in cui Virgilio aveva annunciato l'arrivo di un messo celeste. Questa figura divina, emblema della Grazia, è destinata a sbloccare una situazione di stallo: i due poeti si trovano infatti davanti alle porte della città di Dite, sbarrate dai demoni decisi a impedire l'ingresso di Dante, un vivente. L'atmosfera è carica di tensione e sospensione: Virgilio tenta di rassicurare il suo discepolo, ma traspare il dubbio persino nella sua guida, che si sforza di mantenere un'apparente sicurezza. Dante, dal canto suo, manifesta le proprie paure arrivando a mettere in discussione la conoscenza di Virgilio riguardo al percorso verso il Basso Inferno.
Il Messo Celeste e il Superamento del Male
Il messo celeste, probabilmente un angelo, interviene in un momento critico: con una semplice verghetta, scaccia i demoni e apre le porte di Dite, permettendo ai poeti di proseguire. Questa figura rappresenta l'aiuto divino necessario per superare il male, laddove la sola ragione (Virgilio) si dimostra insufficiente. Il gesto richiama la discesa di Cristo al Limbo per liberare i patriarchi, simbolo della vittoria del bene sul male e del trionfo della Grazia sulla schiavitù del peccato.
Le Tre Furie e Medusa: Simboli del Male e del Dubbio
Prima dell'intervento salvifico, l'apparizione delle tre Furie – creature mitologiche che simboleggiano la cattiva coscienza, il rimorso e la vendetta – amplifica il clima di inquietudine. Le Furie evocano Medusa, il cui sguardo pietrifica chiunque lo incroci, rappresentando il terrore e il dubbio che paralizzano l'anima. Virgilio, consapevole del pericolo, copre gli occhi di Dante con le sue mani per proteggerlo, sottolineando l'incapacità della ragione di fronte a forze così distruttive. L'episodio delle Furie e di Medusa evidenzia la necessità di un intervento divino per affrontare le difficoltà più grandi del cammino spirituale.
Il Passaggio alla Necropoli e il VI Cerchio
Dopo l'apertura delle porte, i poeti entrano in un nuovo scenario: la necropoli del sesto cerchio, dove giacciono gli eretici in tombe infuocate. Questo passaggio segna l'ingresso nel Basso Inferno, dove vengono puniti i peccati più gravi, come la violenza e la frode. La disposizione degli eretici nelle tombe segue un contrappasso: il fuoco eterno rappresenta la condanna per coloro che hanno negato l'immortalità dell'anima, come gli epicurei. Dante manifesta subito interesse per questa categoria di dannati, sapendo che vi incontrerà il concittadino Farinata degli Uberti, figura centrale del canto successivo.
Il Significato Allegorico e Morale
Il Canto IX richiede un'attenta lettura allegorica, come indicano i versi 61-63: sotto il "velame de li versi strani" si cela la dottrina della necessità dell'aiuto divino. Le Furie e Medusa rappresentano le forze che ostacolano il cammino verso la redenzione: la cattiva coscienza, il terrore e il dubbio. Il messo celeste incarna invece la Grazia divina che interviene per salvare l'uomo quando la ragione si rivela insufficiente.
Dal punto di vista morale, il canto evidenzia il continuo conflitto tra il bene e il male. La tensione vissuta dai due poeti simboleggia la difficoltà dell'anima umana di superare il peccato con le sole proprie forze. Tuttavia, la Provvidenza divina non abbandona chi desidera redimersi, e il cammino verso la salvezza può proseguire grazie all'intervento superiore. Questo tema si riflette nel viaggio di Dante, il pellegrino che affronta dubbi e paure ma continua a progredire grazie all'aiuto divino, con la promessa della vittoria finale del bene sul male.
Passi Controversi
Al verso 7, punga è una variante per pugna, modificata per esigenze di rima. Al verso 11, invece, dienne è una forma rara che significa mi diede. I versi 17-18 fanno riferimento al Limbo, il primo cerchio dell'Inferno, dove le anime subiscono come unica pena una speranza «tronca» o «monca», ovvero mai realizzata.
La regina de l'etterno pianto (v. 44) è Proserpina, figura mitologica e sposa di Plutone, regina degli Inferi. Le Furie sono descritte come sue meschine, termine di origine araba (miskin, che significa povero), utilizzato qui nel senso di serve.
Il fragore che precede l'arrivo del messo celeste (v. 64 e seguenti) è probabilmente ispirato a un passo biblico degli Atti degli Apostoli (II, 2), dove si legge di un suono improvviso e impetuoso dal cielo, simile al vento. Anche il vento che abbatte gli alberi potrebbe richiamare un'immagine di Ezechiele (I, 4), dove si parla di una tempesta proveniente da nord. La similitudine con le anime che fuggono come rane davanti a una biscia deriva invece da Ovidio, nelle Metamorfosi (VI, 370-381).
La bacchetta portata dal messo celeste (v. 89) potrebbe rappresentare sia lo scettro tipico di molti angeli nell'arte medievale, sia il caduceo di Mercurio.
Dante paragona le tombe di Dite a due cimiteri celebri: quello di Les Alyscamps ad Arles, lungo il Rodano, e la necropoli di Pola, vicino al golfo del Quarnaro. Infine, al verso 133, li alti spaldi si riferiscono agli spalti della città infernale di Dite.
Fonti: libri scolastici superiori