Parafrasi e Analisi: "Canto IV" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto IV del Purgatorio di Dante ha suscitato, nei secoli, diverse interpretazioni critiche. Mentre alcuni lo considerano meno incisivo e significativo rispetto al precedente, dominato dalla figura di Manfredi, altri studiosi moderni ne hanno rivalutato il valore, riconoscendo nella sua varietà stilistica – che passa da un tono dottrinale nella prima parte a uno più colloquiale nella seconda – un'unità narrativa compatta e ben costruita.

Ambientato nell'Antipurgatorio, il canto si articola in due grandi sezioni. La prima parte, di carattere dottrinale, affronta questioni filosofiche, in cui Dante contesta le teorie platoniche e averroistiche sulla triplice suddivisione dell'anima, sostenendo invece l'unicità dell'anima umana. Da questa prospettiva, egli argomenta che, quando i sensi sono impegnati, l'intelletto perde la percezione del tempo.

La seconda parte è dominata dall'incontro tra Dante e Belacqua, un'anima che si trova all'ombra di un masso e spiega a Dante che dovrà attendere un tempo pari alla durata della sua vita prima di potersi avviare al Purgatorio.

Entrambe le sezioni sviluppano il tema del tempo e della sua percezione, che emerge come la questione centrale del canto.


Testo e Parafrasi


Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda
l'anima bene ad essa si raccoglie,

par ch'a nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
ch'un'anima sovr'altra in noi s'accenda.

E però, quando s'ode cosa o vede
che tegna forte a sé l'anima volta,
vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede;

ch'altra potenza è quella che l'ascolta,
e altra è quella c'ha l'anima intera:
questa è quasi legata, e quella è sciolta.

Di ciò ebb'io esperienza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
ché ben cinquanta gradi salito era

lo sole, e io non m'era accorto, quando
venimmo ove quell'anime ad una
gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».

Maggiore aperta molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
l'uom de la villa quando l'uva imbruna,

che non era la calla onde saline
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova 'n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch'om voli;

dico con l'ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.

Noi salavam per entro 'l sasso rotto,
e d'ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.

Poi che noi fummo in su l'orlo suppremo
de l'alta ripa, a la scoperta piaggia,
«Maestro mio», diss'io, «che via faremo?».

Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
fin che n'appaia alcuna scorta saggia».

Lo sommo er'alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
che da mezzo quadrante a centro lista.

Io era lasso, quando cominciai:
«O dolce padre, volgiti, e rimira
com'io rimango sol, se non restai».

«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da quel lato il poggio tutto gira.

Sì mi spronaron le parole sue,
ch'i' mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che 'l cinghio sotto i piè mi fue.

A seder ci ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond'eravam saliti,
che suole a riguardar giovare altrui.

Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra n'eravam feriti.

Ben s'avvide il poeta ch'io stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.

Ond'elli a me: «Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,

tu vedresti il Zodiaco rubecchio
ancora a l'Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.

Come ciò sia, se 'l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Siòn
con questo monte in su la terra stare

sì, ch'amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,

vedrai come a costui convien che vada
da l'un, quando a colui da l'altro fianco,
se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada».

«Certo, maestro mio,», diss'io, «unquanco
non vid'io chiaro sì com'io discerno
là dove mio ingegno parea manco,

che 'l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun'arte,
e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno,

per la ragion che di', quinci si parte
verso settentrion, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.

Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché 'l poggio sale
più che salir non posson li occhi miei».

Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

Però, quand'ella ti parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
com'a seconda giù andar per nave,

allor sarai al fin d'esto sentiero;
quivi di riposar l'affanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero».

E com'elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in pria avrai distretta!».

Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima s'accorse.

Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l'ombra dietro al sasso
come l'uom per negghienza a star si pone.

E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo 'l viso giù tra esse basso.

«O dolce segnor mio», diss'io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia».

Allor si volse a noi e puose mente,
movendo 'l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or va tu sù, che se' valente!».

Conobbi allor chi era, e quella angoscia
che m'avacciava un poco ancor la lena,
non m'impedì l'andare a lui; e poscia

ch'a lui fu' giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come 'l sole
da l'omero sinistro il carro mena?».

Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole

di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se'? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t'ha' ripriso?».

Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a' martìri
l'angel di Dio che siede in su la porta.

Prima convien che tanto il ciel m'aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
perch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri,

se orazione in prima non m'aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
l'altra che val, che 'n ciel non è udita?».

E già il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi ch'è tocco
meridian dal sole e a la riva

cuopre la notte già col piè Morrocco».
Quando a causa di una sensazione piacevole o
dolorosa, che coinvolge una delle nostre facoltà,
l'anima è assorta completamente ad essa,

diventa evidente che non badi più a nessun'altra facoltà;
e ciò contrasta con l'erronea teoria che ritiene
che in noi un'anima prenda vita sopra a un'altra.

E per questo, quando si sente o si vede qualcosa
che trattenga strettamente l'anima rivolta a sé,
il tempo scorre e l'uomo non se ne accorge;

poiché una è la facoltà che percepisce [il passare del
tempo], e un'altra è quella che avvince l'intera anima: la seconda è
vincolata dalla concentrazione, mentre l'altra ne è sciolta.

Di ciò feci esperienza diretta, udendo e
ammirando quello spirito; perché di ben
cinquanta gradi era salito

il sole, e io non me n'ero accorto, quando
giungemmo laddove quelle anime tutte insieme ci gridarono:
«Questo è il luogo che ci avete chiesto [di indicarvi]».

Spesso, quando l'uva matura, il contadino chiude
con una piccola forcata dei suoi arbusti un varco
più largo

di quanto non fosse il sentiero per cui salì la mia
guida, con me dietro, soli, non appena la schiera
[di anime] si allontanò da noi.

Si sale a San Leo e si discende a Noli, si ascende in cima
al monte Bismantova e al monte Cacume con i soli piedi; ma
qui è necessario volare;

intendo dire con le ali veloci e con le piume di un
forte desiderio, dietro a quella guida che mi
dava speranza e mi illuminava.

Noi salivamo per il sentiero scavato nella roccia,
le pareti ci stringevano da entrambi i lati, e il
terreno sotto a noi richiedeva [l'uso di] mani e piedi.

Quando raggiungemmo il bordo superiore della
ripida parete, sullo slargo aperto, io dissi: «Mio
maestro, quale via prenderemo?».

Ed egli a me: «Nessun tuo passo svii; avanza
verso la cima del monte dietro a me, finché non
apparirà una guida esperta [del luogo]».

La cima era tanto in alto che superava la mia facoltà
visiva, e la pendice molto più ripida di una linea che
congiunge la metà del quadrante con il centro del cerchio.

Io ero stanco quando cominciai: «O dolce padre,
voltati, e guarda come rischio di rimanere solo,
se non ti fermi».

«Figliolo mio», disse, «spingiti fin lì», indicandomi
un ripiano poco più in alto che da quel lato
cingeva tutto il monte.

Le sue parole mi spronarono a tal punto, che io
mi sforzai procedendo carponi dietro di lui, fino a
quando il ripiano mi fu sotto i piedi.

Lì ci ponemmo entrambi a sedere rivolti verso
oriente da dove eravamo saliti, che
riguardare di solito giova alla gente.

Dapprima volsi lo sguardo verso la bassa spiaggia;
poi lo alzai verso il sole, e mi meravigliavo
del fatto che esso ci colpiva da sinistra.

Il poeta ben si accorse che io ero tutto stupito
nel guardare il sole, nel punto in cui esso si
alzava tra noi e il vento Aquilone.

Per cui egli a me: «Se Castore e Polluce fossero
in congiunzione con quello specchio che
riflette la propria luce su e giù,

tu vedresti la zona rosseggiante dello Zodiaco ruotare
ancora più vicina all'Orsa Maggiore e all'Orsa Minore,
a meno che [il sole] non deviasse dall'abituale orbita.

Se vuoi poter capire come ciò avvenga, concentrato
in te stesso, immagina che Gerusalemme e questo
monte siano posti sulla Terra

in modo tale che entrambi abbiano la stessa latitudine ma
differenti emisferi; per cui la rotta che sfortunatamente Fetonte
non seppe percorrere col carro,

vedrai come rispetto a costui deve trascorrere
da destra a sinistra, mentre rispetto a Gerusalemme
dal lato opposto, se il tuo intelletto fa ben attenzione».

«Certo, mio maestro», dissi io, «in quelle situazioni
in cui il mio ingegno sembrava manchevole non ho mai
compreso così chiaramente come ora comprendo

che il circolo mediano del Primo Mobile, che si chiama
Equatore in astronomia, e che sempre si trova
tra [la latitudine de] il sole e [quella de] l'inverno,

per la ragione che hai esposto, da qui si
allontana verso nord, tanto quanto gli ebrei lo
vedevano lontano verso sud.

Ma se ti è gradito, mi piacerebbe sapere quanta strada
dobbiamo percorrere; poiché il monte si eleva più
di quanto possano [vedere] i miei occhi».

Ed egli a me: «Questa montagna è tale che
sempre, all'inizio della scalata, è difficoltoso
[salire]; ma quanto più si sale, meno è arduo.

Perciò, quando ella ti apparirà tanto agevole,
che salire ti sembrerà facile come navigare
nel senso della corrente,

allora sarai al termine di questo sentiero;
aspetta di giungere là per riprendere fiato. Di
più non posso svelarti, e questo so con sicurezza».

E appena egli pronunciato le sue parole, una voce
vicino risuonò: «Forse sentirai prima
la necessità di sederti!».

Al suono di essa entrambi ci voltammo, e
vedemmo a sinistra un grosso masso, del quale
né io né Virgilio prima ci accorgemmo prima.

Ci spostammo fin là; e lì vi erano delle anime
che se ne stavano all'ombra dietro al masso,
come colui che per pigrizia se ne sta seduto.

E una di loro, che mi pareva stanca, sedeva
e abbracciava le ginocchia, tenendo il volto
abbassato tra esse.

«O mio dolce signore», dissi io, «guarda
attentamente colui che si mostra più negligente
di quanto [sarebbe] se la pigrizia fosse sua sorella».

Allora si volse verso noi e ci prestò attenzione,
alzando il viso soltanto sopra la coscia,
e disse: «Ora va' su tu, che sei bravo!».

Allora riconobbi chi fosse, e quell'affanno
che m'accelerava ancora un poco il fiato,
non mi impedì di andare verso di lui; e dopo

che gli fui giunto vicino, alzò la testa appena,
dicendo: «Hai ben compreso il motivo per cui il
sole si muove dalla parte sinistra?».

I suoi pigri movimenti e le sue concise parole
mossero le mie labbra a un lieve sorriso; poi
cominciai: «Belacqua, non mi dispiace

più per te ormai; ma dimmi: perché stai seduto
proprio qui? Attendi una guida, oppure hai
ripreso le vecchie abitudini?».

Ed egli: «Oh fratello, a che cosa serve salire su?
Dal momento che l'angelo di Dio, che siede sulla
porta [del Purgatorio], non mi lascerebbe accedere ai tormenti.

Prima occorre che il cielo ruoti intorno a me fuori
dalla porta [del Purgatorio] tante volte quanto lo fece
quando io ero in vita, poiché rimandai all'ultima ora il pentimento,

se non mi aiutano le preghiere nate dal cuore
di chi vive in Grazia di Dio; le altre che valore hanno,
dal momento che in cielo non vengono ascoltate?».

E il poeta già saliva davanti a me e diceva: «Vieni
ora; guarda che il meridiano è già
raggiunto dal sole e sulla costa

la notte già copre con il piede il Marocco».



Riassunto


Versi 1-18
Immerso nella conversazione con Manfredi, Dante perde la percezione del tempo, suggerendo un richiamo alla teoria filosofica secondo cui l'anima umana è unica: quando la potenza sensitiva è occupata, quella intellettiva non riesce a cogliere lo scorrere del tempo.

Versi 19-54
Seguendo il consiglio delle anime scomunicate, Dante e Virgilio si dirigono verso il sentiero per proseguire la salita, ma scoprono che il percorso è molto arduo. Quando, con grande sforzo, raggiungono un punto sopraelevato, si fermano per osservare il cammino già percorso.

Versi 55-87
Dante nota che il sole è alla sua sinistra, una posizione inusuale rispetto a quanto avviene sulla Terra. Virgilio gli spiega che ciò è dovuto al fatto che Gerusalemme e il Purgatorio si trovano alla stessa latitudine ma in emisferi opposti.

Versi 97-139
Mentre discutono, i due sentono una voce che commenta i loro discorsi. Proviene da un'anima che, insieme ad altre, riposa all'ombra di un grande masso. Dante riconosce il suo amico Belacqua, noto per la sua pigrizia, che gli spiega di dover rimanere lì ancora a lungo prima di poter accedere al Purgatorio. Questo periodo potrebbe ridursi solo grazie all'intercessione delle preghiere dei giusti. Dopo aver parlato con lui, Virgilio esorta Dante a proseguire il cammino.


Figure Retoriche


vv. 19-23. «Maggiore aperta molte volte impruna / con una forcatella di sue spine / l'uom de la villa quando l'uva imbruna, / che non era la calla onde saline / lo duca mio»: Similitudine.
v. 59. «carro della luce»: Perifrasi per indicare il sole.
vv. 62-63. «quello specchio / che sù e giù del suo lume conduce»: Perifrasi per indicare il sole


Personaggi Principali


Il Canto IV del Purgatorio della Divina Commedia ha come protagonista Belacqua, un personaggio enigmatico su cui si hanno poche informazioni certe. I primi commentatori del poema, come l'Anonimo Fiorentino, lo identificano con Duccio Bonavia, detto Belacqua, un liutaio fiorentino amico di Dante, noto per la sua indole particolarmente pigra. Si racconta che Belacqua, a giustificazione della sua pigrizia, amasse citare un detto di Aristotele: «sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens» ("stando seduto e quieto, l'anima diventa saggia").

Dante inserisce la figura di Belacqua con un duplice intento: innanzitutto per mostrare la punizione riservata ai pigri, ma anche per introdurre il tema della pazienza, una virtù necessaria per affrontare il difficile percorso penitenziale che conduce alla Grazia divina. Sebbene presentato in toni leggeri e confidenziali, Belacqua assume un ruolo importante, poiché la sua presenza offre a Dante (e al lettore) una riflessione chiave per il cammino di redenzione.

Curiosamente, si dice che Dante stesso scherzasse affettuosamente con l'amico Duccio Bonavia proprio a causa della sua proverbiale lentezza.


Analisi ed Interpretazioni


Nel Canto IV del Purgatorio, Dante incontra le anime di coloro che in vita hanno tardato a pentirsi e a rivolgersi a Dio, manifestando una forma di negligenza che accomuna tutti gli spiriti dell'Antipurgatorio, sebbene con diverse sfumature. In particolare, in questo episodio viene punita la pigrizia. Attraverso il dialogo con Belacqua, Dante scopre il tipo di pena che queste anime devono sopportare: esse sono costrette ad attendere, sedute e appoggiate su un grande masso, per un periodo equivalente alla durata della loro vita, prima di poter iniziare il percorso di purificazione che le condurrà in Paradiso. Questa punizione si basa sulla legge del contrappasso per analogia: poiché in vita hanno mostrato indolenza, ora rimangono oziose, ferme all'ombra di un masso, in attesa di redenzione.


Passi Controversi


All'inizio del quarto canto dell'Inferno, Dante si risveglia a causa di un suono misterioso che ha affascinato i critici. Questo "trono" non è chiaro, ma potrebbe essere legato a un evento straordinario, simile al terremoto e alla luce rossa che avevano causato il suo svenimento alla fine del terzo canto.

Al verso 30, Dante evoca un'immagine già presente nell'Eneide (VI, 306-307), dove Virgilio descrive le anime che si raccolgono sulle rive dell'Acheronte: "madri, uomini, fanciulli, ragazze non ancora maritate". Successivamente, nei versi 33-36, Virgilio anticipa una verità spirituale che verrà ulteriormente chiarita nel Paradiso (XIX, 103-105) da un'aquila nel cielo di Giove: solo chi ha creduto in Cristo può salire al regno celeste.

Al verso 45, Dante usa l'aggettivo "sospesi," riprendendo un termine che aveva già usato nel secondo canto. Più avanti, al verso 69, la frase "ch'emisperio di tenebre vincia" si presta a interpretazioni diverse: può significare che la luce prevale su un emisfero di tenebre oppure che le tenebre circondano l'emisfero, rifacendosi alla luce che emana dal castello.

La spada impugnata da Omero (v. 86) rappresenta la sua fama di poeta epico e guerriero, in particolare nell'Iliade, ma simboleggia anche la sua superiorità rispetto agli altri poeti che lo accompagnano. Al verso 95, l'espressione "di quel segnor de l'altissimo canto" si riferisce probabilmente a Omero, descritto da Dante come guida e maestro degli altri tre poeti.

La descrizione del castello degli "spiriti magni" si ispira ai Campi Elisi dell'Eneide (VI, 638 e seguenti). Questo luogo, simile a un locus amoenus, ricorda anche la scena del Purgatorio (VII, 70 e seguenti), in cui Sordello mostra a Dante e Virgilio le anime dei principi negligenti. Le sette mura e sette porte del castello hanno suscitato diverse interpretazioni simboliche: le arti liberali, le virtù, o le divisioni della filosofia, anche se nessuna spiegazione sembra definitiva.

Nei versi 130-135, Dante rende omaggio alla figura di Aristotele, riconoscendo la sua superiorità sugli altri filosofi. Aristotele siede in una posizione elevata e tutti gli rendono onore, in linea con il grande rispetto per il pensiero aristotelico all'interno della teologia tomista e del pensiero cristiano del XII-XIII secolo.

Al verso 136 si accenna alla teoria atomistica di Democrito, e Dante probabilmente trae questa informazione dalle opere di San Tommaso d'Aquino. Dioscoride è menzionato come "buono accoglitor del quale" (v. 139) per il suo lavoro sulle proprietà medicinali delle piante. Infine, Dante cita Seneca come "morale" al verso 141, senza specificare se si riferisca esclusivamente alle sue opere filosofiche o se includa anche le sue tragedie, suggerendo che Dante probabilmente riconoscesse entrambe le nature dell'autore.

Fonti: libri scolastici superiori

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