Parafrasi e Analisi: "Canto III" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il terzo canto dell'Inferno di Dante Alighieri, ambientato all'ingresso dell'Inferno, si apre con un'immagine che mette in scena la giustizia divina e il destino delle anime dannate. Il tema centrale del canto è la punizione delle anime ignave, ovvero coloro che, in vita, non si schierarono mai né per il bene né per il male, mantenendo una posizione di codardia morale e mancando di una vera identità. Come in altri momenti della Divina Commedia, anche qui emerge l'incapacità umana di comprendere pienamente la giustizia e la misericordia divine. In questo caso, tuttavia, a differenza del dialogo con le anime scomunicate del Purgatorio (Canto III), l'infinita misericordia di Dio non viene concessa a questi dannati, che non possono pentirsi né ottenere perdono.

Il canto si può suddividere in tre momenti principali:

L'incontro tra Dante e Virgilio davanti alla porta dell'Inferno, dove il poeta viene colto da timore e confusione davanti alla scritta minacciosa che dichiara: "Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate." Come nei dialoghi teologici tra Dante e Virgilio nel Purgatorio, anche qui l'attenzione si concentra sulla limitatezza della conoscenza umana e sulla necessità di un percorso spirituale che vada oltre la ragione.
L'ingresso delle anime dannate che giungono sull'Acheronte, il fiume che segna il confine dell'Inferno. Qui si evidenzia la giustizia divina, che condanna questi spiriti codardi a una pena eterna senza alcuna possibilità di riscatto. A differenza delle anime scomunicate pentite del Purgatorio, queste anime sono prive di qualsiasi speranza di salvezza, perché, in vita, non hanno scelto alcuna strada.
L'apparizione di Caronte, il traghettatore infernale, che insulta e respinge Dante, ancora vivo, dimostrando come l'Inferno sia un regno dove non c'è posto per la grazia o la compassione.

Come nell'incontro con Manfredi nel Purgatorio, anche qui si possono leggere critiche sociali e morali; in questo caso, Dante condanna l'ignavia, la mancanza di ideali e l'assenza di responsabilità morale, posizioni che per il poeta fiorentino rappresentano uno dei peccati più gravi, privi di qualsiasi speranza di redenzione.


Testo e Parafrasi


Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,

i' mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare' io sanza lui corso?
chi m'avria tratto su per la montagna?

El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscienza e netta,
come t'è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l'onestade ad ogn'atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,

lo 'ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi 'l viso mio incontr'al poggio
che 'nverso 'l ciel più alto si dislaga.

Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m'era dinanzi a la figura,
ch'avea in me de' suoi raggi l'appoggio.

Io mi volsi dallato con paura
d'essere abbandonato, quand'io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;

e 'l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch'io ti guidi?

Vespero è già colà dov'è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l'ha, e da Brandizio è tolto.

Ora, se innanzi a me nulla s'aombra,
non ti maravigliar più che d'i cieli
che l'uno a l'altro raggio non ingombra.

A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli.

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d'Aristotile e di Plato
e di molt'altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.

Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che 'ndarno vi sarien le gambe pronte.

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.

«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse 'l maestro mio fermando 'l passo,
«sì che possa salir chi va sanz'ala?».

E mentre ch'e' tenendo 'l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,

da man sinistra m'apparì una gente
d'anime, che movieno i piè ver' noi,
e non pareva, sì venian lente.

«Leva», diss'io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».

Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch'ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».

Ancora era quel popol di lontano,
i' dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,

quando si strinser tutti ai duri massi
de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti
com'a guardar, chi va dubbiando, stassi.

«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch'i' credo che per voi tutti s'aspetti,

ditene dove la montagna giace
sì che possibil sia l'andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».

Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l'altre stanno
timidette atterrando l'occhio e 'l muso;

e ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
addossandosi a lei, s'ella s'arresta,
semplici e quete, e lo 'mperché non sanno;

sì vid'io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l'andare onesta.

Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l'ombra era da me a la grotta,

restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo 'l perché, fenno altrettanto.

«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che 'l lume del sole in terra è fesso.

Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».

Così 'l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se', così andando, volgi 'l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.

Quand'io mi fui umilmente disdetto
d'averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo 'l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond'io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l'onor di Cicilia e d'Aragona,
e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice.

Poscia ch'io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l'ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde,
dov'e' le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,

per ognun tempo ch'elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m'hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s'avanza».
Sebbene l'improvvisa fuga avesse disperso per
la spiaggia le anime, in direzione del monte dove
la Giustizia divina ci tormenta,

io mi avvicinai al mio fidato compagno: e come
sarei potuto avanzare senza di lui? Chi mi
avrebbe condotto su per la montagna?

Egli mi pareva tormentato da un cruccio personale:
o coscienza nobile e pura, come anche un piccolo
sbaglio è per te amaro rimorso!

Quando i suoi passi ebbero abbandonato la fretta,
che priva ogni gesto di dignità, la mia mente,
che prima era tutta concentrata,

estese i suoi orizzonti, così come desiderosa
[di conoscere], e rivolsi il mio sguardo sul monte
che più alto si innalza verso il cielo emergendo dalle acque.

La luce del sole, che dietro splendeva rosseggiante,
era rotta dinnanzi alla mia figura,
poiché aveva in me un ostacolo ai suoi raggi.

Io mi volsi di lato con il timore di essere stato
abbandonato, quando io vidi solo davanti a me
la terra scurita [dall'ombra];

ed il mio conforto: «Perché ancora diffidi?»,
cominciò a dirmi tutto rivolto verso di me; «Non
credi che io sia con te e che ti guidi?

È già sera là dov'è sepolto il corpo dentro al
quale io facevo ombra: è a Napoli, vi è stato
trasportato da Brindisi.

Ora, se davanti a me non si crea alcuna ombra,
non ti meravigliare più del fatto che i cieli non
impediscono dall'uno all'altro il passaggio dei raggi.

La Virtù divina dispone che questi corpi soffrano
tormenti, caldo e gelo, ma non vuole che ci
venga rivelato come ciò accada.

Folle è colui che spera che la ragione umana
possa percorrere l'infinita via divina che
stringe una sostanza in tre persone.

Accontentatevi, uomini, di conoscere i fatti:
poiché, se aveste potuto sapere tutto, non ci
sarebbe stato bisogno che Maria partorisse;

e vedeste desiderare invano coloro ai quali il
desiderio sarebbe stato appagato, e invece
gli è dato come pena eterna nel Limbo:

io parlo di Aristotele, di Platone e di molti altri»;
e a questo punto chinò la fronte, e altro
non disse, e rimase turbato.

Noi giungemmo intanto ai piedi del monte, e qui
trovammo la costa rocciosa così erta, che invano
le gambe sarebbero state pronte a salire.

La strada più impervia e inaccessibile
tra Lerici e Turbia è, rispetto a quella,
una scala agevole e larga.

«Ora chi sa da quale parte la costa [della montagna] è meno
ripida», disse il mio maestro fermando il suo andare, «così
che possa salire anche chi non ha le ali?».

E mentre egli tenendo lo sguardo basso
esaminava il cammino da prendere, ed io
guardavo in alto intorno al monte,

dal lato sinistro mi apparve una schiera di anime,
che dirigevano i passi verso di noi, ma non
sembrava, tanto si muovevano lente.

«Alza lo sguardo, maestro», dissi io, «ecco da
questa parte chi ci darà consiglio, se tu da solo
non puoi trovarlo».

Guardò allora e con il volto rinfrancato rispose:
«Andiamo verso loro, che essi si muovono piano;
e tu tieni salda la speranza, dolce figliolo».

Quella schiera di anime era ancora lontana, dopo che
avevamo percorso circa un miglio, quanto un buon lanciatore
potrebbe scagliare un sasso con la mano,

quando tutti si accostarono alle dure rocce
dell'alta costiera, e stettero vicini e fermi, come
sta fermo e osserva chi è colto dal dubbio.

«O morti in grazia di Dio, o spiriti eletti», cominciò
Virgilio, «in nome di quella pace che io credo sia
attesa da tutti voi,

ditemi dove la montagna è meno ripida, così che
sia possibile salire; perché perdere tempo spiace
di più a chi è più saggio».

Come le pecorelle escono dal recinto a una, a due,
a tre per volta, e le altre restano intimidite
tenendo rivolti a terra gli occhi e il muso;

e ciò che fa la prima, lo fanno anche le altre,
addossandosi a lei, se lei si ferma, obbedienti e
docili, e non sanno il perché;

così allora vidi io muoversi la prima fila di quella
schiera di spiriti eletti, umile in volto e composta
nel procedere.

Non appena coloro che stavano davanti videro
la luce [del sole] interrotta in terra dal mio lato
destro, così che l'ombra si estendeva da me alla grotta,

si fermarono, e indietreggiarono un poco, e tutti
gli altri che venivano loro dietro, non sapendo il
motivo, fecero altrettanto.

«Senza alcuna vostra domanda io vi rivelo che
questo che vedete è un corpo umano; perciò la
luce del sole a terra è interrotta.

Non vi meravigliate, ma sappiate che non senza
una Grazia che viene dal Cielo egli cerchi di
superare questa parete rocciosa».

Così [disse] il maestro; e quelle anime elette
dissero: «Tornate indietro e procedete dunque
dritto», facendo segno con il dorso delle mani.

Ed uno di loro iniziò: «Chiunque tu sia,
continuando a camminare, volgi lo sguardo [verso di
me]: cerca di ricordare se in Terra mai mi vedesti».

Io mi volsi verso lui e lo guardai attentamente:
era biondo e bello e di aspetto nobile, ma uno dei due
sopraccigli era stato tagliato da un colpo [di spada].

Quando gli ebbi cortesemente negato di averlo mai
visto, egli disse: «Ora guarda»; e mi mostrò una
ferita nella parte superiore del petto.

Poi sorridendo disse: «Io sono Manfredi, nipote
dell'imperatrice Costanza; perciò io ti prego,
quando ritornerai,

di andare dalla mia bella figlia, madre dei
sovrani di Sicilia e d'Aragona, e di raccontarle la
verità, se le dicerie sono altre.

Dopo che il mio corpo fu trafitto da due ferite
mortali, io mi rivolsi, piangendo, a Colui che
volentieri concede il perdono.

Furono orribili i miei peccati; ma la misericordia
infinita ha braccia così grandi che accoglie
chiunque si rivolga ad essa.

Se il vescovo di Cosenza, che allora fu mandato
da Clemente IV a perseguitarmi, avesse ben
compreso questo aspetto di Dio,

le ossa del mio corpo sarebbero ancora all'inizio
del ponte presso Benevento, sotto la custodia
del pesante cumulo di pietre.

Ora la pioggia le bagna e le muove il vento al di
fuori del Regno, quasi lungo il fiume Verde, dove
egli le fece spostare con i ceri spenti.

In seguito alla scomunica però non si perde, al
punto che non si possa riacquistare, l'amore divino,
fino a quando la speranza ha ancora un barlume di verde.

È vero che chi muore scomunicato dalla Santa Chiesa,
anche se si pente in punto di morte,
è necessario che stia al di fuori di questo monte,

per un tempo pari a trenta volte quanto egli è
rimasto nel suo errore, a meno che questo
tempo non diventi più breve grazie alle preghiere dei buoni.

Vedi ormai se tu mi puoi allietare, rivelando alla
mia buona figlia Costanza la condizione in cui
mi hai visto, e anche questo divieto;

perché qui, grazie a chi è in Terra, si progredisce molto».



Riassunto


Versi 1-45. Dopo che Catone ha rimproverato le anime e queste si sono disperse velocemente verso il monte, Dante si avvicina a Virgilio, consapevole che solo con la sua guida potrà proseguire nel viaggio. Tuttavia, rimane confuso quando nota la sua ombra a terra, mentre Virgilio non ne proietta alcuna. Virgilio lo tranquillizza, spiegando che le anime, pur avendo percezioni fisiche, non proiettano ombre poiché la luce del sole le attraversa. Poi lo invita a non cercare di comprendere i misteri della fede solo con la ragione umana, come fecero filosofi come Aristotele e Platone.
Versi 46-66. I due giungono ai piedi del monte del Purgatorio, che si mostra ripido e difficile da scalare. Virgilio non conosce un percorso che renda la salita più semplice; mentre riflette, Dante nota alla loro sinistra un gruppo di anime e decide di avvicinarsi per chiedere indicazioni.
Versi 67-102. Si tratta delle anime degli scomunicati, che inizialmente si accostano alle rocce nel notare i due poeti. Virgilio coglie l'occasione per domandare loro se conoscono una via più agevole per la salita. Dopo un momento di esitazione, le anime iniziano ad avvicinarsi, ma si fermano appena notano l'ombra di Dante. Virgilio spiega allora che Dante è vivo e che la sua presenza sul monte è conforme alla volontà divina. Le anime, rassicurate, indicano ai poeti di precederle nel cammino.
Versi 103-145. Una delle anime, quella di Manfredi, si rivolge a Dante, rivelando la sua identità e chiedendogli di informare la figlia Costanza della sua salvezza e della sua condizione nell'aldilà. Manfredi racconta di essersi pentito dei suoi peccati poco prima della morte, ottenendo così il perdono divino. Prosegue narrando che, dopo la sua morte, il vescovo di Cosenza fece esumare il suo corpo per disperderlo presso il fiume Garigliano. Conclude spiegando che le anime degli scomunicati devono attendere nell'Antipurgatorio un periodo pari a trenta volte la durata della scomunica, salvo che le preghiere dei vivi non abbrevino il loro tempo d'attesa.


Figure Retoriche


v. 14. «viso»: Sineddoche per indicare lo sguardo.
v. 55. «viso»: Sineddoche per indicare lo sguardo.
vv. 79-84. «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l'altre stanno / timidette atterrando l'occhio e 'l muso; / e ciò che fa la prima, e l'altre fanno, /addossandosi a lei, s'ella s'arresta, / semplici e quete, e lo 'mperché non sanno»: Similitudine.
v. 87. «pudica in faccia e ne l'andare onesta»: Chiasmo.
v. 120. «quei che volontier perdona»: Perifrasi per indicare Dio.


Personaggi Principali


Manfredi, pur apparendo solo alla fine del Canto III del Purgatorio, ne è il vero protagonista. Figlio illegittimo di Federico II di Svevia e Bianca Lancia del Monferrato, nacque nel 1232 e fu educato alla raffinata corte di Palermo, distinguendosi per la sua cultura e raffinatezza. Alla morte del padre, nel 1250, divenne reggente del Regno di Sicilia e del Sud Italia, per poi cedere il potere al fratellastro Corrado IV, l'erede legittimo, al suo arrivo in Italia dalla Germania. Dopo la morte di Corrado nel 1254, però, Manfredi si trovò in conflitto con il papato, che considerava il Regno di Napoli un proprio feudo. Nel 1258 venne incoronato re a Palermo e proseguì la politica paterna di opposizione al potere temporale della Chiesa e di supporto ai ghibellini italiani. Questa scelta lo portò a scontrarsi duramente con la Chiesa: Papa Innocenzo IV lo scomunicò una prima volta, ma in seguito lo perdonò e lo nominò vicario della Chiesa. Tuttavia, con l'elezione di Alessandro IV, le ostilità si riaccesero e Manfredi fu nuovamente scomunicato. Riprese quindi la lotta contro il papato e i guelfi, contribuendo alla vittoria ghibellina nella Battaglia di Montaperti nel 1260 con il suo esercito, aumentando così la tensione con la Chiesa. Nel 1265, Papa Clemente IV chiamò in aiuto Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, che marciò contro Manfredi e, nella Battaglia di Benevento del 1266, Manfredi morì combattendo.

Nel Canto III del Purgatorio, Manfredi riveste tre ruoli importanti:

Incarnazione dei valori cortesi, che Dante considera il massimo esempio di comportamento civile: Manfredi è descritto come bello, coraggioso, di nobili origini e animo elevato.
Omaggio alla dinastia sveva e, attraverso essa, all'Impero.
Elogio della misericordia divina, incomprensibile alla sola ragione umana e infinitamente superiore alla politica papale, che attraverso l'abuso della scomunica cerca di arrogarsi il potere di giudicare le anime.
Curiosità: Manfredi è noto anche come Manfredi di Hohenstaufen, Manfredi di Svevia o Manfredi di Sicilia.


Analisi ed Interpretazioni


Nel Canto III del Purgatorio, Dante ci presenta le anime scomunicate che, pur essendo ormai salve grazie al pentimento giunto in punto di morte, devono ancora espiare le loro colpe prima di poter ascendere al Paradiso. Tra queste anime, un esempio significativo è quello di Manfredi, figlio dell'imperatore Federico II, che si fa portavoce di un gruppo di peccatori che, pur avendo rifiutato la Chiesa in vita, sono stati perdonati grazie al loro sincero pentimento. Queste anime, costrette ad attendere fuori dal Purgatorio per un tempo pari a trenta volte quello che hanno vissuto nella scomunica, si trovano ora a camminare come pecorelle mansuete (vv. 79-84), in un evidente contrappasso per analogia: se in vita erano ribelli alla Chiesa, ora sono costrette a una penitenza che simbolizza l'umiltà e la docilità a Dio.

Nel contempo, Dante lancia un monito sia alla Chiesa che agli esseri umani: la prima non deve pensare di avere il potere di prevaricare la misericordia infinita di Dio con le proprie leggi, mentre i secondi non devono giudicare affrettatamente la condotta degli altri, poiché solo Dio conosce veramente ciò che si cela nel cuore e nella coscienza degli individui.

Un altro aspetto importante nel Canto III riguarda la figura di Virgilio, che, sebbene sia il poeta guida, si trova qui in una condizione di incertezza rispetto alla sua conoscenza del Purgatorio. Virgilio, infatti, non è più nel regno dell'Inferno, che conosceva bene, e si trova a confrontarsi con limiti che nemmeno la sua grande saggezza può superare. Il suo turbamento e la sua difficoltà a risolvere le situazioni a cui si trova di fronte simboleggiano il limite della sola ragione umana, che, pur necessaria, non è sufficiente per giungere al Paradiso. La vera salvezza, come Dante suggerisce, richiede l'intervento della Grazia divina, la partecipazione alla vita della Chiesa e il suo aiuto sacramentale.

In questo contesto, Dante rivolge una critica velata a quelle grandi menti del passato, come Platone e Aristotele, e persino a Virgilio stesso, che pur essendo pieni di saggezza avevano cercato di comprendere i misteri divini solo attraverso la ragione, finendo così esclusi dalla salvezza. La figura di Virgilio, quindi, diventa un simbolo di chi è destinato a rimanere separato dalla visione diretta di Dio, una condizione che lo tormenta profondamente.

Infine, attraverso la figura di Manfredi, Dante rende omaggio alla dinastia sveva, che nel Duecento rappresentava l'idea di Impero come portatrice di ordine e giustizia, conferendo a Federico II e a suo figlio una dignità pari a quella del papato. Tuttavia, dietro la scelta di Manfredi di non fare riferimento a suo padre Federico II, ma piuttosto a sua nonna Costanza d'Altavilla, c'è un chiaro messaggio teologico: Costanza, beata nel Paradiso, viene contrapposta a Federico II, che invece è dannato nel sesto Cerchio dell'Inferno. In questo modo, Dante utilizza la dinastia sveva per esplorare le diverse sfaccettature del potere e il suo impatto sulla salvezza, mostrando come il destino dei potenti possa essere segnato dalle loro scelte morali.


Passi Controversi


La scritta sulla porta dell'Inferno (vv. 1-9) viene interpretata come se fosse la stessa porta a parlare, seguendo una tradizione dell'antichità in cui si trovano iscrizioni simili su vasi e altri oggetti, dove l'oggetto in questione esprimeva il nome dell'artigiano che lo aveva creato. In questo caso, il "creatore" della porta è Dio, che viene rappresentato attraverso le Persone della Trinità: la "divina podestate" è il Padre, la "somma sapienza" è il Figlio, e il "primo amore" è lo Spirito Santo.

Al v. 29, l'espressione sanza tempo tinta significa "eternamente oscura", enfatizzando l'idea di un luogo senza fine e senza speranza.

Il v. 31 presenta una variante nelle letture, con error e orror, che hanno significati diversi. La lezione scelta da Petrocchi è error, in quanto più complessa e in grado di esprimere il dubbio che Virgilio chiarirà poco dopo.

Nel v. 42, la frase ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli suggerisce che i dannati, pur essendo in una condizione di sofferenza eterna, potrebbero sentirsi superiori agli ignavi, poiché questi ultimi non avrebbero commesso un peccato vero e proprio.

I vv. 59-60 sembrano riferirsi all'anima di Celestino V, sebbene siano state proposte altre interpretazioni (ad esempio Esaù, Pilato, Giuliano l'Apostata). Il termine gran rifiuto si riferisce alla sua abdicazione papale, avvenuta il 13 dicembre 1294, che portò alla nomina di Bonifacio VIII, il papa che, con le sue manovre politiche, fu indirettamente responsabile dell'esilio di Dante.

Il lieve legno citato da Caronte (v. 93) è il vascello leggero che l'angelo utilizza per trasportare le anime dei penitenti dal Tevere fino alla spiaggia del Purgatorio (come descritto nel Purgatorio, II, 13 ss.). Questo accenno predice simbolicamente la futura salvezza di Dante.

Le parole vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare (vv. 95-96) costituiscono una formula fissa che si ripeterà con Minosse (V, 23-24) e con Plutone (VII, 11-12), con lievi modifiche.

Nel v. 116, il verbo gittansi è al plurale, ma si riferisce al soggetto collettivo il mal seme d'Adamo (v. 115), che viene considerato un'entità singola ma composta da molti.

Infine, al v. 134, la parola ché può essere soggetto di vento, facendo riferimento al vento sotterraneo che produce la luce rossastra, oppure può avere un valore causale, a seconda delle interpretazioni.

Fonti: libri scolastici superiori

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