La filosofia di lingua araba in Oriente, tra IX e XII secolo


Immagine La filosofia di lingua araba in Oriente, tra IX e XII secolo
1) Il Corano
2) La riflessione teologica sul Corano
3) L'incontro tra la filosofia in lingua araba e la filosofia greca
4) Il primo importante filosofo arabo: al-Kindi
5) Il Libro delle cause
6) Al-Farabi
7) Avicenna: metafisica e creazione del mondo
8) Avicenna: l'anima e la conoscenza
9) L'influenza di Avicenna nel mondo latino
10) Al-Gazali

Il Corano


Il Corano rappresenta il libro sacro degli Arabi e il suo nome significa "recitazione" o "racconto". Esso contiene il messaggio che, secondo la tradizione, il profeta Maometto avrebbe ricevuto dall'arcangelo Gabriele nel corso di vent'anni, tra il 612 e il 632, anno della sua morte. La rivelazione si sarebbe manifestata prima a Mecca e successivamente a Medina, dopo la fuga di Maometto dalla prima città sacra. La sua redazione definitiva avvenne intorno al 653, a opera dei successori del profeta e il libro è composto da 114 capitoli o "sure", suddivisi in versetti.

Il Corano, oltre alla sua struttura originaria, incorpora la Sunna che si riferisce al comportamento e alla tradizione del profeta Maometto. Questa integrazione è riconosciuta principalmente dai sunniti mentre gli sciiti seguono solo il Corano e si affidano all'autorità dei discendenti di Maometto, gli imam.

La rivelazione coranica si concentra su due dogmi fondamentali: l'unicità di Allah come Dio e Maometto come suo profeta. Allah è descritto come un ente incorporeo con sette attributi separabili dalla sua essenza unitaria. La creazione del mondo è il risultato della sua volontà libera e il Corano tratta della sottomissione totale dell'umanità ad Allah, chiamata "islam".

La parola di Dio, secondo il Corano, corrisponde alla sharìa, la legge islamica che obbliga a credere nei profeti, negli angeli, nei libri della rivelazione, nella risurrezione e nel giudizio divino. L'etica islamica prescrive cinque doveri fondamentali per il musulmano che si legano a pratiche rituali comunitarie.

Questi doveri includono la professione di fede, la preghiera cinque volte al giorno rivolta verso la Mecca, il digiuno durante il mese del Ramadan, il pellegrinaggio a Mecca almeno una volta nella vita e il pagamento della tassa di elemosina prescritta dalla legge. Oltre a ciò, il Corano promuove una disciplina minuziosa della vita, con norme morali e l'invito a praticare virtù come la carità, la pazienza e la solidarietà famigliare e sociale. In questo modo, il Corano si presenta come un testo completo, offrendo indicazioni teologiche e morali nella sua precisa struttura.


La riflessione teologica sul Corano


All'interno del mondo islamico, tra l'VIII e il X secolo, si sviluppa una scienza specifica nota come ilm al kalam o semplicemente kalam, la quale si focalizza sulla riflessione razionale dei dogmi presenti nella rivelazione ricevuta da Maometto. Questa disciplina, conosciuta come la scienza del discorso su Dio, emerge con l'obiettivo di chiarire aspetti oscuri del messaggio profetico al fine di rafforzare la fede.

La scienza del kalam si sviluppa principalmente per affrontare la necessità di interpretare correttamente i versetti del Corano che, se presi alla lettera, potrebbero condurre a una concezione antropomorfica di Dio. Coloro che si dedicano a questo discorso su Dio sono chiamati mutakallimun, ovvero "coloro che parlano".

Un ruolo significativo nello sviluppo della scienza del discorso su Dio è giocato dal movimento conosciuto come Mu'tazila, nato in Persia tra Bassora e Baghdad nell'VIII secolo sotto la protezione dei sovrani della dinastia abbaside. I mutaziliti, in gran parte sciiti, favorevoli a un'interpretazione allegorica del Corano, si oppongono ai religiosi tradizionali che generalmente respingono il kalam e preferiscono un'interpretazione letterale.

Le tesi fondamentali dei mutaziliti includono l'unicità di Dio, la giustizia divina, l'adempimento delle promesse e delle minacce divine, lo stato intermedio del peccatore e l'obbligo per l'uomo di promuovere il bene e evitare il male. Essi sostengono che i sette attributi divini non possono essere considerati separati da Dio, coincidendo con la sua stessa essenza e pertanto richiedono un'interpretazione allegorica.

In opposizione a questa corrente di pensiero, tra i sunniti, nasce una seconda importante corrente guidata da al-Ashari (873 ca. - 935). Gli ashariti sostengono l'onnipotenza totale e assoluta di Dio, ritenendolo la causa diretta di ogni cosa, comprese le azioni umane, buone o cattive. A differenza dei mutaziliti, gli ashariti affermano che Dio è l'unico autore delle azioni e può liberamente compiere il male, se così vuole, contrariamente alle loro convinzioni.

I pensatori di lingua araba che affronteremo ora non appartengono alla categoria dei mutakallimun e non si concentrano principalmente sull'interpretazione del Corano. Pur essendo musulmani devoti, si dedicano allo studio dei testi della filosofia greca, convinti di poter conciliare le loro verità con quelle del Corano. In effetti, i primi filosofi arabi ereditano dai filosofi greci tardo-antichi la convinzione che Dio sia l'unica fonte di verità e che questa possa essere trovata anche nei testi dei filosofi non musulmani. Questa idea è chiaramente espressa dal primo grande filosofo di lingua araba, al-Kindi, il quale afferma che non dovremmo vergognarci di riconoscere la bellezza della verità ovunque essa si trovi, anche se proviene da culture distanti dalla nostra. Per coloro che cercano la verità, nulla è più importante di essa; la verità non è influenzata da chi la comunica ma nobilita tutti. Questa certezza li spinge talvolta a prendere posizioni su questioni fondamentali come la natura dell'unico Dio e la creazione del mondo, argomenti spesso affrontati anche dai religiosi e dai teologi. Pertanto, ricorrono all'interpretazione allegorica del Corano quando necessario. I rapporti tra tradizionalisti religiosi, mutakallimun e filosofi sono complessi. In generale, i tradizionalisti sono contrari sia ai mutakallimun che ai filosofi; i mutakallimun, specialmente gli ashariti, talvolta consultano i testi dei filosofi per evidenziarne l'allontanamento dalla fedeltà al Corano; i filosofi, d'altro canto, in alcuni casi contestano le interpretazioni allegoriche dei mutakallimun, come fa ad esempio Averroè, che ritiene che solo il filosofo sia in grado di allegorizzare correttamente.


L'incontro tra la filosofia in lingua araba e la filosofia greca


Tra il 635 e il 642, gli Arabi presero possesso di Damasco e conquistarono la Siria, l'Egitto e la Persia. La città di Alessandria, celebre capitale culturale del mondo di lingua greca, fu definitivamente sottomessa nel 642. Durante il regno del califfo omayyade Ibn Muawiya (660-680), iniziarono le prime traduzioni in arabo di testi greci e siriaci. Tuttavia, fu sotto la dinastia abbaside, a partire dal 750, che la cultura greca cominciò a diffondersi nel mondo arabo, con un'intensa attività di traduzione. Nel 762, il califfo al-Mansur (754-775) fondò Baghdad, la nuova capitale che divenne un importante crocevia culturale.

In questa città, all'inizio del IX secolo, forse sotto il califfato di al-Rasid (786-809) o forse sotto quello di al-Mamun (813-833), nacque la "Casa della sapienza" (Bayt al-hikma), una biblioteca di palazzo che alcuni studiosi ritengono si sia trasformata in un centro di studi aperto, dove le traduzioni di testi greco e siriaco aumentarono. Altri ritengono che la "Casa della sapienza" abbia avuto un ruolo minore, facendo parte di un più ampio movimento di traduzioni coinvolgente diverse sedi a Baghdad. Comunque sia, nel IX secolo, nelle biblioteche di Baghdad erano presenti e venivano tradotti manoscritti di importanti autori greci come Platone, Aristotele, Euclide, Tolomeo, Galeno e altri, provenienti da diverse città di lingua greca.

I califfi abbasidi aspiravano a essere arbitri delle questioni teologiche, promuovevano il mutazilismo e incoraggiavano lo studio della saggezza degli altri popoli, anche in vista di un'appropriazione dei loro strumenti culturali. In particolare, al-Mamun radunò intorno a sé l'élite culturale e, per diffondere e difendere la teologia razionale, chiese ai filosofi gli strumenti necessari per risolvere le questioni controverse. Così, nel corso del IX secolo, gli schemi teorici della filosofia greca, chiamati in arabo falsafa, divennero componenti importanti della cultura musulmana, strumenti per comprendere il mondo e la realtà, affiancando la teologia e lo studio delle verità rivelate dal Corano.

Nonostante la filosofia non fosse concepita come una forma autonoma di conoscenza razionale della realtà ma come un mezzo per comprendere meglio la realtà alla luce della parola rivelata, la cultura di lingua araba, confrontandosi con la filosofia greca, sperimentò nuove categorie concettuali e strutture interpretative. Ciò avvenne nel contesto del compito di conoscenza della realtà naturale e della divinità che il Corano sembrava assegnare alla ragione, come indicato in molti versetti. Platone e Aristotele furono autori fondamentali per gli Arabi, anche se il primo era conosciuto principalmente attraverso le interpretazioni dei neoplatonici e di altri commentatori antichi mentre Aristotele, con tutte le sue opere principali tradotte, fu letto con l'influenza significativa dei filosofi neoplatonici come Plotino e Proclo.

Un contributo importante a questa interpretazione fu fornito dall'"Teologia di Aristotele", erroneamente attribuita ad Aristotele che in realtà era una parafrasi dei trattati IV-V-VI delle Enneadi di Plotino. Questa opera fu realizzata da un cristiano di nome al-Himsi, all'interno del circolo culturale del primo importante filosofo arabo, al-Kindi, poco prima della metà del IX secolo.

Leggiamo nel prologo dell'opera:

"[...] il nostro intento in questo libro è il discorso sulla sovranità di Dio e la sua esposizione: come Egli sia la Causa Prima, perché sia l'eternità che il tempo sono al di sotto di lui; e come essa sia la causa delle cause e il loro creatore per creazione, e come la potenza della luce si effonda da lui sull'Intelletto, e con la mediazione dell'Intelletto sull'anima cosmica universale; a partire dall'Intelletto, con la mediazione dell'anima, sulla natura; a partire dall'anima, con la mediazione della natura, sulle cose generabili e corruttibili [...]"

(PseudoTeologia di Aristotele, Prologo)

Si tratta di un adattamento alla visione della struttura metafisica elaborata da Plotino, adeguandola alle esigenze della religione monoteista. Questo testo esegue un'operazione sintetica straordinaria: l'Uno-Bene di Plotino, corrispondente all'«idea del buono» menzionata da Platone nel libro VI della Repubblica e definita «al di là dell'essere», diventa il «primo essere». Questo primo principio trascendente, unico nella sua semplicità, crea attraverso il processo di "emanazione". Il Demiurgo del Timeo di Platone viene collocato nel livello del mondo intelligibile, occupando la posizione che, nella gerarchia metafisica di Plotino, spetta alla seconda ipostasi, il Noùs, ovvero l'Intelletto.

L'Anima del mondo, menzionata nel Timeo, è presentata come il principio vitale del mondo sensibile. Di conseguenza, Dio crea e guida l'universo dall'alto della sua provvidenza, esercitando la sua potenza tramite l'Intelletto e l'Anima che fungono da cause intermedie tra Dio e il mondo fisico. Dio è anche il creatore dell'anima immortale dell'uomo che, dopo la morte, può ritornare a Dio. Questa struttura teologica viene considerata la vera e definitiva interpretazione della teologia aristotelica e diventa il punto di riferimento della filosofia araba, accettata in quanto ritenuta in perfetto accordo con le verità rivelate dal Corano.

In seguito a questa interpretazione erronea della teologia aristotelica, possibilmente influenzata anche dai trattati cristiani dello Pseudo-Dionigi, vengono generati altri testi spuri. Tra essi, assume importanza il Libro di Aristotele sull'esposizione del Bene puro, conosciuto dai cristiani come Libro delle cause. Questo testo, di chiara matrice neoplatonica, fu compilato nel circolo di al-Kindi nel IX secolo, utilizzando materiali tratti dalla Teologia platonica di Proclo e con alcuni riferimenti a Plotino. Sebbene attribuito ad Aristotele, acquisì maggior rilevanza nel mondo latino rispetto a quello di lingua araba. Ne riparleremo tra breve.


Il primo importante filosofo arabo: al-Kindi


Il primo pensatore islamico di rilievo è al-Kindi, nato a Bassora verso la fine dell'VIII secolo, all'interno di una famiglia araba prestigiosa. Ha vissuto e lavorato a Baghdad sotto la protezione dei califfi abbasidi, diventando anche precettore del figlio di al-Mamun. Al-Kindi ha formato un circolo di studiosi e traduttori, svolgendo un ruolo cruciale nella diffusione della filosofia greca. La sua vita si è conclusa a Baghdad intorno all'870.

Autore di un vasto corpus enciclopedico, al-Kindi ha scritto numerose opere che spaziano in diverse discipline, anche se solo una parte limitata è giunta fino a noi. Tra le sue opere più significative vi è la "Filosofia prima" e l'"Epistola sull'intelletto", quest'ultima tradotta in latino da Gerardo da Cremona ed ampiamente conosciuta tra i teologi cristiani del Duecento.

Per al-Kindi, filosofia e religione si incontrano nell'indicare Dio come il principio primo e unico da cui tutto emana per "emanazione", secondo il concetto coranico. Egli critica la teoria aristotelica dell'eternità del mondo, sostenendo, ispirandosi a Giovanni Filopono, che non può esistere un corpo infinito nel tempo. L'universo, secondo al-Kindi, è finito sia nello spazio che nel tempo e come ha avuto un inizio, avrà una fine.

Al-Kindi afferma che a Dio, come causa semplice, antecedente e trascendente rispetto a tutte le cose determinate, non si possono attribuire predicati. Utilizzando argomenti che richiamano il motore immobile aristotelico e il concetto neoplatonico dell'Uno come principio trascendente, al-Kindi sostiene la verità del Corano. La sua "Filosofia prima" rappresenta un punto di convergenza tra la teoria aristotelica e la filosofia neoplatonica, contribuendo così alla fusione di queste correnti nel pensiero filosofico islamico.

Al-Kindi diventa famoso in Occidente soprattutto per la sua interpretazione del passo del libro III del trattato "Sull'anima" di Aristotele riguardante l'intelletto attivo e la sua separazione dall'intelletto passivo. Questo è uno dei temi filosofici più discussi nel Medioevo, sia tra i filosofi arabi che tra i teologi e i filosofi cristiani. Per comprendere appieno la questione, è necessario tornare brevemente ad Aristotele.

Secondo Aristotele, nell'anima umana si devono distinguere due tipi di intelletto: quello "passivo", dotato della capacità di ricevere tutte le forme intelligibili, e quello "produttivo", dotato della capacità di astrarre le forme intelligibili dalle immagini sensibili, portando l'intelletto passivo all'atto. Il primo muore insieme al corpo; il secondo, definito da Aristotele come "separabile, impassibile e non mescolato" (cioè separato dal corpo, costantemente uguale a se stesso e incorporeo), è "immortale ed eterno". Grazie alla sua funzione costante e immutabile, l'intelletto produttivo sembra concepito come un intelletto unico per l'intero genere umano, agendo sugli uomini durante la loro vita e garantendo l'universalità della conoscenza.

Il primo grande commentatore antico di Aristotele, Alessandro di Afrodisia, vissuto tra il II e il III secolo d.C., chiama l'intelletto produttivo "attivo" e afferma che è completamente esterno ed estraneo all'uomo, coincidendo con il primo motore immobile menzionato nel libro XII della Metafisica. Grazie all'azione dell'intelletto divino, l'intelletto passivo (che Alessandro chiama "potenziale" o "materiale", in quanto "tutto ciò che è atto a ricevere qualcosa è materia di quella cosa"), interno all'anima umana e quindi mortale, partecipa alla conoscenza delle "forme intelligibili" immateriali. Apprendendo a separare le forme dalla materia, diventa "intelletto come abito" o "intelletto acquisito"; a un livello superiore, quando "l'abito è attivo", diventa "l'intelletto in atto", capace di pensare a se stesso come identico a ciò che è pensato: le pure forme intelligibili prive di qualsiasi contatto con la materia. In questo stato, l'intelletto umano raggiunge una sorta di incorporeità che lo rende simile all'intelletto agente immortale, ovvero a Dio. Tuttavia, questa condizione è transitoria e destinata a finire con la morte.

Al-Kindi adotta un'interpretazione simile a quella di Alessandro di Afrodisia (che probabilmente riprende, anche se non si sa come l'abbia conosciuta). Egli legge il processo attraverso il quale gli universali sono conosciuti come il risultato di un'assimilazione dell'uomo, dotato solo di intelletto potenziale, a Dio: un'ascesa resa possibile dall'azione dell'intelletto attivo, identificato con l'azione illuminatrice di Dio. In questo modo, Al-Kindi sviluppa uno schema interpretativo destinato a influenzare ampiamente sia la successiva tradizione islamica che il dibattito cristiano della seconda metà del Duecento.


Il Libro delle cause


Nel IX secolo, nel contesto culturale di Baghdad di al-Kindi, si fa menzione del Libro di Aristotele sull'esposizione del Bene puro. Quest'opera fu tradotta in latino alla fine del XII secolo con il titolo di Libro delle cause. Si tratta di un testo compilato da un autore anonimo (sebbene alcuni studiosi ipotizzino che possa essere lo stesso al-Kindi), il quale ha utilizzato materiali provenienti dalla Teologia platonica di Proclo e dalle Enneadi di Plotino. Il Libro delle cause è fortemente influenzato anche dalla cosiddetta Teologia di Aristotele; alcuni studiosi suggeriscono che lo stesso autore potrebbe aver redatto entrambi i trattati.

A causa dell'attribuzione ad Aristotele, i pensatori latini considereranno quest'opera come il punto di vista definitivo del filosofo greco su Dio, addirittura completando il XII libro della Metafisica, dedicato al motore immobile. La composizione è costituita da 31 proposizioni principali (la versione latina ne contiene 32, a causa dello sdoppiamento della quarta proposizione). Ciascuna di queste proposizioni è commentata da un numero variabile di brevi affermazioni (per un totale di 219), seguendo uno schema deduttivo derivato dal testo di Proclo, che a sua volta imita la struttura degli Elementi di Euclide.

Tuttavia, nonostante la sua struttura metafisica complessiva, il Libro delle cause si ispira più allo schema gerarchico di Plotino delle tre ipostasi: l'Uno, l'Intelletto e l'Anima del mondo. A differenza della Teologia di Aristotele precedentemente menzionata, il libro perde un elemento essenziale della metafisica neoplatonica: l'Uno diventa il primo essere, l'"Essere puro" e non è più situato al di là dell'essere.

Il testo si apre con la proposizione: "ogni causa prima esercita sul suo effetto una influenza maggiore della causa universale seconda". Quest'affermazione, tratta da Proclo, stabilisce il primato della "causa prima", l'Uno, sulle "cause seconde", anche se quest'ultima è la più lontana dagli effetti che produce. In questo contesto, "il principio primo è causa delle cause", governando tutte le cose senza avere alcun rapporto di commistione con esse.

Le "cause seconde", create dall'Uno e destinate ad agire direttamente sulla realtà, sono l'Intelletto e l'Anima. Mentre il principio primo è semplice, perfetto, immutabile e precede ogni cosa fuori dal tempo, l'Intelletto, creato dall'Uno e l'Anima, agiscono nell'eternità, a livelli decrescenti di perfezione, sotto il suo impulso.

"[...] la causa prima è al di sopra dell'eternità, in quanto l'eternità è un suo effetto. E l'Intelligenza si equipara, ovvero si parifica con l'eternità, perché è coestesa con l'eternità e non subisce né alterazione né distruzione. L'anima, poi, è congiunta con l'eternità inferiormente, perché più dell'intelligenza è suscettibile di ricevere impronte; ed è al di sopra del tempo, in quanto del tempo stesso è la causa [...]"
(Libro delle cause, prop. 2)

L'Assoluto è completamente al di là della comprensione umana, nel senso che non è possibile attribuirgli direttamente alcuna caratteristica, come suggerisce la teologia negativa di matrice neoplatonica:

"[...] la causa prima è superiore ad ogni descrizione e non difettano le lingue nel descriverla se non per il fatto che la descrizione riguarda proprio lei e lei è al di sopra di ogni causa mentre viene descritta soltanto attraverso le cause seconde che sono illuminate dalla luce della causa prima. [...] La causa prima è al di sopra delle cose intelligibili e al di sopra delle cose corruttibili, per cui non la toccano né i sensi, né la meditazione, né il ragionamento, né l'intelligenza. E di lei propriamente non si può parlare se non attraverso la causa seconda che è l'Intelletto e non si può chiamare con il nome del suo primo causato, se non in un modo più eminente ed elevato, giacché ciò che è vero del causato è vero anche della causa, ma in un modo più sublime, più elevato e più nobile, come dimostriamo [...]"
(Libro delle cause, prop. 5)

Inaccessibile a qualsiasi forma di comprensione umana che sia sensibile, interiore, discorsiva o intuitiva, il principio primo è l'oggetto di un discorso indiretto. Si parla di esso come la causa dell'Intelletto, considerando che è superiore per eminenza e perfezione rispetto ai suoi effetti. Pertanto, questo breve trattato cerca di conciliare la teoria aristotelica di Dio come motore immobile, la causa prima del movimento del primo cielo e il pensiero che pensa se stesso. Questa conciliazione tiene conto anche della visione neoplatonica dell'Uno, perfetto nella sua ineffabilità ma non più "al di là dell'essere", insieme alla prospettiva di matrice biblica sulla creazione del mondo.

La vicinanza teorica del Libro delle cause alle tesi dello Pseudo-Dionigi favorisce la sua adozione nella cultura latina, dove gode di una straordinaria fortuna. Tradotto dall'arabo in latino da Gerardo da Cremona a Toledo insieme ad altri testi aristotelici, con il titolo "Libro di Aristotele sull'esposizione del Bene puro", nei primi decenni del Duecento viene ritenuto aristotelico da maestri universitari e teologi. Entra a far parte dei testi obbligatori nella Facoltà delle Arti di Parigi. Alberto Magno fornisce la prima parafrasi a uso dei domenicani, fondando sulla sua metafisica neoplatonica del "flusso". Nel 1268, la traduzione dalla Teologia platonica di Proclo, dal greco al latino, da parte del domenicano Guglielmo di Moerbeke permette a Tommaso d'Aquino di scoprire la vera matrice del libro. Tuttavia, ciò non gli impedisce di produrne un commento, accettando in molti punti la visione del rapporto tra Dio e il mondo che si trova in esso.


Al-Farabi


Il successore di al-Kindi nella filosofia è al-Farabi. Nato probabilmente di origine turca, al-Farabi visse nel Turkestan tra l'870 e il 950. Studioso del Corano e esperto di logica, trascorse parte della sua vita a Baghdad, dove fu uno dei maestri nel circolo di filosofi e traduttori di Aristotele formatosi nel X secolo. Successivamente si trasferì ad Aleppo e infine a Damasco.

Al-Farabi fu un prolifico scrittore, fortemente influenzato dalla Teologia di Aristotele e dal Libro delle cause. Egli considerò Platone e Aristotele come pensatori in armonia, scrivendo un testo sulla concordanza delle loro idee intitolato "Sull'accordo tra le opinioni dei due sapienti, il divino Platone e Aristotele". Inoltre, commentò numerosi testi dei due filosofi greci e scrisse libri introduttivi alla filosofia, tra cui "Esortazione alla via della felicità", "Le idee degli abitanti della città virtuosa" e "Il libro dell'ordinamento politico" (due opere politiche ispirate in parte alla "Repubblica" di Platone), e "Epistola sull'intelletto" dedicata alla natura dell'intelletto attivo.

Al-Farabi contribuì significativamente alla costruzione di una metafisica che fonde l'aristotelismo con il neoplatonismo e propose un'interpretazione originale della questione dell'intelletto attivo. Criticò coloro che consideravano la metafisica solo come la scienza che trattava esclusivamente di Dio, dell'intelletto e dell'anima, definendola, invece, come la "scienza universale" che studia ciò che è comune a tutti gli enti. Secondo al-Farabi, la "scienza divina" che studia Dio come "principio dell'essere in generale" rientra in questa definizione. Egli considerava Dio come "il Primo Essere", la causa prima dell'esistenza di tutti gli altri esseri. La sua essenza consisteva nel pensare se stesso, senza altro fine o scopo da perseguire.

Al-Farabi difese Aristotele dalle critiche di Giovanni Filopono, dimostrando l'accordo tra Platone e Aristotele basandosi su un'attenta lettura dei testi. Secondo il filosofo arabo, sia Platone che Aristotele sostennero la creazione simultanea del tempo e del mondo da parte di Dio. Al-Farabi ricorse alla teoria neoplatonica dell'"emanazione" per spiegare come ogni cosa derivi da Dio e venga all'essere. Tale teoria, a suo avviso, era comune sia a Platone che ad Aristotele.

"[...] il Primo [Essere] è quello da cui proviene l'esistenza. E poiché il Primo possiede un'esistenza che Gli è propria, è necessario che per mezzo suo siano fatti esistere tutti gli altri esseri esistenti – la cui esistenza non derivi dall'uomo e dalla sua libera scelta – secondo l'esistenza che è loro caratteristica e che è ora percepita dai sensi, ora intelletta con la dimostrazione. Tutto ciò la cui esistenza proviene [da Dio] è fatto esistere grazie a un'emanazione che [si comunica] dal suo essere all'essere di un'altra cosa, così che l'essere di ciò che è diverso da Lui emani dal suo essere [...]"
(Le idee degli abitanti della città virtuosa, cap. VII)

Al-Farabi elabora un completo schema del processo gerarchico di derivazione che influenzerà notevolmente i filosofi successivi, in particolare Avicenna. Questo schema combina la matrice neoplatonica con l'analisi aristotelica delle intelligenze divine, ognuna delle quali è considerata un motore immobile. Dio, come il primo motore immobile e intelletto puro, pensa a se stesso generando la prima intelligenza, la prima creatura senza corpo. Questa, rivolta al motore immobile e pensandolo, genera una seconda intelligenza. Nel pensare a se stessa, mediante un atto di auto-riconoscimento, produce un cielo e questo processo continua fino alla decima intelligenza.

La prima intelligenza dopo Dio coincide con il motore celeste delle stelle fisse (la prima sfera celeste) mentre le successive muovono i cieli dei sette pianeti. Infine, il cielo della Luna è mosso dalla decima e ultima intelligenza, identificata con l'intelletto attivo descritto da Aristotele nel libro III del trattato "Sull'anima". Secondo al-Farabi, con la sfera della Luna si conclude la serie dei corpi celesti il cui moto è circolare; al di sotto si trova la sfera sublunare, imperfetta e composta da materia mutabile.

Basandosi su queste premesse ontologiche e cosmologiche, al-Farabi sviluppa una teoria originale dell'intelletto umano, ampliando quella di al-Kindi. Poiché l'uomo possiede solo l'intelletto potenziale o materiale, è necessario l'intervento dell'intelletto attivo, la decima intelligenza cosmica, unica per tutti gli uomini ed esterna a loro, affinché possa conoscere le forme intelligibili.

Pertanto, ciò che l'intelletto umano contiene come potenzialità, ad esempio l'idea di uomo, diventa attuale solo attraverso l'illuminazione superiore dell'intelletto attivo. In questo modo, l'uomo può raggiungere l'intelletto "acquisito", ossia una conoscenza reale degli universali, delle forme intelligibili e delle essenze delle cose sensibili. Quando l'intelletto acquisito si eleva per congiungersi con l'intelletto attivo, senza identificarsi con esso, l'uomo raggiunge la felicità.

Al di sopra di questo livello si trova la "visione dell'angelo", equiparata alla conoscenza del profeta. Attraverso la facoltà immaginativa, il profeta comprende in modo puro e intuitivo il significato superiore dell'ordine divino, permettendogli di conoscere gli eventi futuri. Questa forma di conoscenza è quella che Maometto ha ricevuto come rivelazione da Dio e spiega la capacità dei profeti di interpretare la parola divina, comprendendone il vero significato. In questo modo, lo sciita al-Farabi legittima il ruolo incontestabile di guida per coloro che sono investiti dalla luce dell'intelletto attivo, stabilendo una differenza qualitativa tra la loro forma di conoscenza e quella sensibile-razionale a cui si può accedere dal basso. In modo significativo, interpretando la Repubblica di Platone a suo modo, al-Farabi identifica gli imam, i leader islamici, con i filosofi-re, posti da Platone a guidare la città virtuosa.

L'uomo è un essere che può perfezionarsi solo vivendo in società. La "città virtuosa" è quella in cui tutte le parti cooperano per il bene comune, simile a un corpo perfetto e sano in cui tutte le membra collaborano per preservare la vita dell'animale. Ogni individuo possiede specifiche predisposizioni naturali che lo devono guidare a occupare volontariamente il ruolo che deve svolgere nella vita sociale. In cima a tutti si trova il governante, simile al cuore nel corpo: l'"organo dominante", in virtù della sua natura più perfetta e completa. Egli ha nei confronti degli altri cittadini lo stesso ruolo che Dio, la prima causa, ha nei confronti degli esseri viventi: come la perfezione di Dio è imitata da tutti i corpi, gerarchicamente sistemati secondo l'ordine dell'emanazione, così i componenti della città virtuosa "devono compiere atti, in ordine gerarchico, che imitino il fine del primo governante". Tuttavia, è evidente che questo governante, l'imam, guida politica e spirituale, non può essere una persona comune: deve possedere disposizioni innate superiori e, soprattutto, aver ricevuto l'ispirazione profetica. "Governante in senso assoluto" è quindi:

"[...] colui che non ha in alcun modo bisogno che qualcuno lo guidi, ma anzi ha acquisito in atto ogni tipo di scienza e di conoscenza e non ha bisogno in nessuna cosa di qualcuno che lo guidi. Egli percepisce in modo eccellente tutte le cose particolari di cui ha necessità per operare; sa guidare in modo eccellente tutti gli altri verso ciò che insegna, e sa utilizzare tutti i modi possibili per compiere quelle azioni per le quali è predisposto; sa valutare, definire e indirizzare le azioni [che conducono] alla felicità. Ciò accade a coloro che possiedono nature talmente forti e superiori da essere in grado di congiungersi con l'Intelligenza Agente [...]"
(Il libro dell'ordinamento politico, cap. VI, § 4)


Avicenna: metafisica e creazione del mondo


Ibn Sina, il celebre filosofo di lingua araba successivo ad al-Farabi, emerge come una figura di straordinaria erudizione che ha lasciato un'impronta indelebile sulla riflessione successiva nel mondo islamico. Il suo impatto si estende significativamente al periodo del Medioevo latino. Conosciuto presso i Latini come Avicenna, le sue opere hanno svolto un ruolo fondamentale come ponte primario per l'interpretazione di Aristotele, anticipando l'arrivo di un altro eminente commentatore, Averroè.

Avicenna, di origini persiane e vissuto tra il 980 e il 1037, presenta un approccio filosofico influenzato da al-Farabi ed offre un quadro teorico completo a sostegno della religione islamica. Questo pensatore, coniugando neoplatonismo e aristotelismo, ha come opera fondamentale il "Libro della guarigione" (Kitab al-Sifa), una vasta enciclopedia filosofica in 18 volumi suddivisi secondo la tradizione aristotelica in logica, filosofia naturale, matematica e "scienza delle cose divine" o "metafisica". Inoltre, Avicenna ha compilato un compendio di questa opera anche in lingua persiana.

Un'altra opera di rilievo è il "Canone di medicina", che ha ottenuto ampio successo nel mondo latino dopo la sua traduzione. Avicenna attinge alle fonti di Aristotele, Porfirio, Euclide, Tolomeo e la Teologia di Aristotele.

Dal punto di vista filosofico, sono particolarmente significativi la sezione del "Libro della guarigione" dedicata alla metafisica, chiamata "La scienza delle cose divine", e il trattato di filosofia naturale dedicato alla psicologia, intitolato "Il Libro dell'anima". Nella "Scienza delle cose divine", Avicenna propone una reinterpretazione originale della Metafisica di Aristotele, esponendo la sua teoria generale della realtà.

Avicenna inizia con la distinzione logica tra "essenza" ed "esistenza". Ogni entità è definita dalla sua essenza ma la definizione di essa non implica la necessità della sua esistenza reale. Avicenna distingue logicamente ciò che un oggetto è da ciò per cui è. Questa distinzione è fondamentale quando si discute della realtà. Mentre tutti gli enti, tranne Dio, sono sottoposti a questa distinzione, Dio è considerato assolutamente semplice e la sua esistenza coincide con la sua essenza. Al contrario, gli altri enti sono considerati "esistenti possibili" o contingenti, poiché la loro esistenza è indipendente dalla loro essenza ed è causata da un agente esterno.

Avicenna sostiene che ogni ente possibile o contingente ottiene l'esistenza grazie all'azione di una causa esterna che lo rende effettivamente esistente. L'esistenza di ciò che è causato dipende costantemente da una causa agente che gli dona l'esistenza. In breve, Avicenna afferma che il causato ha bisogno di un donatore di esistenza sempre presente finché esiste, poiché la causa è responsabile di conferire l'esistenza e di mantenerla.

La concezione affermata si basa sulla logica aristotelica che sostiene l'esistenza di una causa prima di tutte le cose. Secondo questa prospettiva, poiché ogni ente richiede una causa agente e non è possibile procedere all'infinito nella catena delle cause agenti, si deduce l'esistenza di una causa primaria: Dio. Questo essere unico, semplice e necessario, è considerato il creatore dell'universo, portando ogni entità dall'assoluta non-esistenza all'esistenza, dalla possibilità alla necessità.


Avicenna: l'anima e la conoscenza


In questa esposizione, Avicenna argomenta sull'esistenza di Dio come "esistente necessario" attraverso un approccio metafisico anziché fisico. Egli analizza ontologicamente il rapporto tra l'essere divino, in cui non vi è distinzione tra essenza ed esistenza e quello degli enti possibili e creati. Questo si differenzia dalla via aristotelica dell'"induzione dalle cose sensibili" che avrebbe condotto al motore immobile di Aristotele. Avicenna, in veste di metafisico, ridefinisce il concetto aristotelico di causalità agente di Dio. Non lo limita a essere solo il principio del movimento eterno del cielo ma lo considera il "principio dell'esistenza e ciò che la conferisce, come il Creatore rispetto al mondo".

Il Dio di Avicenna, principio primordiale, esistente necessario e unico, sfugge a definizioni essendo privo di un'essenza descrivibile. Egli crea il mondo attraverso un eterno processo di emanazione. Avicenna respinge l'idea di un inizio temporale del mondo, ritenendo che un'azione del genere sarebbe incompatibile con la semplicità, unità e immutabilità di Dio. Quest'ultimo è visto come l'essere necessario che conferisce l'esistenza a ciò che è possibile. Ogni cosa proviene da Dio per necessità e non come atto della sua volontà libera, evitando di attribuirgli una divinità volubile con un'intenzione finalizzata a qualcosa al di fuori di sé.

Ciò che è possibile esiste in potenza e, dunque, deve esistere, anche se richiede l'azione divina per passare dalla potenza all'atto. Al contrario, ciò che non esiste in potenza è impossibile e non può essere portato all'atto con una creazione dal nulla. Pertanto, Dio, essendo eterno, crea in eterno ciò che è possibile che sia, realizzando ciò che è stato in potenza da sempre. Avicenna stabilisce così la priorità ontologica di Dio su tutti gli altri esseri, indipendentemente dalla questione della loro esistenza temporale. Egli adotta dalla teoria dell'emanazione di al-Farabi, sebbene con variazioni nel movimento descritto: il principio divino genera il primo "intelletto" senza intermediari, basandosi sul principio che dall'uno può derivare solo l'uno; per creare tutto il resto, utilizza intelligenze e anime come cause seconde.

Il primo principio della conoscenza introduce nell'universo la diversità: riflettendo su Dio come l'essere necessario, genera un secondo livello intellettuale inferiore. Considerandosi come possibile, dà origine al primo livello celeste; contemplando sé stesso come l'effetto necessario di Dio, crea l'anima che muove il primo cielo. Da qui scaturisce una successione di intelletti, fino al decimo e ultimo, di cieli, fino al nono e ultimo (il cielo della Luna) e di anime che governano i cieli. Il cosmo dell'esistenza si compone quindi di dieci intelletti e nove cieli (tra cui il cielo cristallino, il cielo delle stelle fisse, le sfere dei sette pianeti, l'ultima delle quali è quella della Luna), seguendo il ritmo di una cascata di emanazioni. L'ultimo intelletto, il decimo, non genera un altro livello intellettuale: è l'"intelletto agente", il "plasmatore" che crea la materia costituente il mondo sublunare e vi imprime le forme intelligibili. È lo stesso "intelletto agente" che consente agli intelletti umani la comprensione delle forme intelligibili.

Nel contesto della teoria aristotelica, Avicenna adotta l'approccio di al-Farabi e sostiene che l'uomo, dotato solo dell'"intelletto materiale" o "potenziale", può comprendere le forme intelligibili della realtà, le sue essenze immateriali e gli universali attraverso un'intervento esterno della decima intelligenza, l'intelletto attivo. Avicenna esamina questa questione nel Libro dell'anima, il sesto trattato tra gli otto dedicati alla filosofia della natura all'interno del Libro della guarigione. Questo scritto avrà un impatto significativo nel mondo cristiano, anticipando la traduzione latina del trattato aristotelico Sull'anima e fornendo chiavi interpretative a molti.

Secondo Avicenna, l'anima è una sostanza semplice, immortale, incorporea, separata e indipendente dal corpo, capace di esistere senza di esso. Nonostante ciò, viene creata insieme al corpo e, durante il periodo di unione con la materia corporea, rappresenta la forma e la perfezione di essa. Avicenna concilia così la concezione platonica, in cui l'anima è separata dal corpo e la visione aristotelica, dove l'anima è la "forma sostanziale" del corpo e esiste solo in unione con esso. Questa sintesi ottiene ampio consenso tra i teologi cristiani.

Rispecchiando l'insegnamento di Aristotele, Avicenna distingue tre funzioni dell'anima: la vegetativa (coinvolta nella nutrizione, conservazione e generazione), la sensitiva (responsabile della percezione sensibile, immaginazione e memoria) e la razionale (con intelletto e scienza). Il processo di conoscenza inizia con la percezione sensibile dei cinque sensi che mettono in contatto con il mondo esterno e ricevono le "forme sensibili" emanate dagli oggetti. Queste forme passano alle "potenze" dell'anima sensitiva, definite da Avicenna come "sensi interni" e localizzate in diverse cavità del cervello. La sua analisi dei sensi interni va oltre il semplice commento al testo aristotelico, influenzando la teologia cristiana, come evidenziato nei lavori di Ruggero Bacone e Tommaso d'Aquino nella Somma teologica.

I sensi interni sono cinque:
1) La fantasia o senso comune;
2) L'immaginazione o potenza formatrice;
3) La potenza cogitativa;
4) La potenza estimativa;
5) La potenza rammemorativa.

I primi tre sensi captano le "forme dei sensibili" mentre gli altri due interpretano le "intenzioni dei sensibili". Avicenna spiega la distinzione tra la percezione della forma sensibile e la percezione dell'intenzione sensibile nel seguente modo: la forma è ciò che viene percepito sia dal senso interno che da quello esterno ma è più precisamente il senso esterno che la percepisce e la comunica al senso interno. Avicenna utilizza l'esempio della pecora che riconosce la figura e il colore del lupo come forma; di fronte a questi aspetti del lupo, l'anima della pecora percepisce l'intenzione ostile e concepisce in sé stessa l'intenzione di provare paura e fuggire lontano. In modo appropriato, dunque, il senso esterno percepisce la forma del lupo, mentre il senso interno percepisce, al di là dei sensi, l'intenzione.

La capacità immaginativa, derivante dalla "fantasia" o "senso comune", riceve le impressioni sensoriali provenienti dagli stimoli esterni, dando origine a rappresentazioni mentali degli oggetti. L'"immaginazione" conserva queste immagini sensoriali e consente di richiamarle anche in assenza di stimoli diretti. La "facoltà cogitativa", simile alla "facoltà immaginativa" degli animali non umani ma più limitata, permette di manipolare e combinare queste immagini mentali.

Parallelamente, la "facoltà estimativa" comune agli uomini e agli animali, va oltre le sensazioni fisiche, percependo le "intenzioni non sensibili" degli oggetti. Questo ci consente di valutare istintivamente se qualcosa è buono o cattivo, utile o dannoso, indipendentemente dall'immagine ricevuta. La "facoltà rammemorativa" poi conserva queste percezioni delle intenzioni.

Tuttavia, per comprendere concetti universali, forme intelligibili e concetti astratti, è necessario l'intelletto. L'uomo possiede un intelletto potenziale separato dal corpo e immortale che conosce le forme intelligibili grazie all'illuminazione proveniente dall'intelletto attivo. Quest'ultimo, oltre a fornire le forme intelligibili alla materia, illumina le immagini sensoriali, consentendo all'intelletto potenziale di concepire attivamente queste forme, prive di materia.

Avicenna sottolinea così la distinzione tra anima e corpo e la separazione tra conoscenza sensoriale e intelligibile. Ogni avanzamento nella conoscenza corrisponde a uno stadio dell'"intelletto materiale". Dal livello più basso, una tabula rasa priva di forme, si passa all'"intelletto in abito", che assimila gli strumenti logici di primo livello. Successivamente, si raggiunge l'"intelletto in atto" che acquisisce le seconde forme intelligibili senza ancora pensarle. Infine con "l'intelletto acquisito", il soggetto è consapevole delle forme intelligibili presenti nell'intelletto, grazie alla connessione con l'"intelletto agente", portando a compimento la perfezione della specie nell'individuo.

Esiste ancora un quinto livello, accessibile, come al-Farabi aveva precedentemente affermato, solo a pochi individui dotati di eccezionali capacità immaginative: i profeti, noti anche come "l'intelletto santo". A questo stadio, l'intelletto materiale si separa completamente dal corpo. Chi possiede questa potenza è in grado di intuire rapidamente e senza passare attraverso procedimenti logici o sillogismi le essenze delle cose che sta cercando. L'individuo dotato dell'intelletto santo può connettersi completamente con l'intelletto agente. Grazie alla capacità immaginativa svincolata dal mondo sensibile, la sua anima può ricevere ogni cosa dall'intelletto agente e le forme presenti in quest'ultimo possono imporsi rapidamente o quasi istantaneamente.

Questo intelletto si manifesta in modo preciso nella capacità di connettere ciò che non è visibile, come il passato e il presente con il futuro. Si presenta come una facoltà che consente di anticipare ciò che non è ancora accaduto. Poiché l'intelletto potenziale individuale è immortale e completamente indipendente dal corpo e dalla sua dissoluzione, tutto ciò che ogni individuo ha acquisito nel suo percorso di conoscenza e elevazione spirituale si fissa come un patrimonio inalterabile nella sua memoria. Questa memoria mantiene attive le capacità acquisite, le disposizioni a pensare e agire, in generale tutto ciò che costituisce l'identità individuale. La vita ultraterrena delle anime conserva quindi il carattere delle persone, la loro singolarità numerica e il loro modo specifico di sentire, comprendere e amare. Questo si traduce in forme di beatitudine individualizzata. Su questa base, Dante, fortemente influenzato dalla teoria dell'illuminazione avicenniana, svilupperà l'architettura del suo Paradiso, dove ciascun beato gode di un rapporto specifico e personalissimo con la luce divina.


L'influenza di Avicenna nel mondo latino


Nel XII secolo, grazie alle traduzioni avviate a Toledo, l'influenza di Avicenna in Occidente si è rivelata vasta e significativa. Gli artefici di questo trasferimento culturale furono l'ebreo Ibn Daud, noto come Avendauth e il cristiano Domenico Gundissalvi, anche conosciuto come Gundissalino che visse a Toledo tra il 1162 e il 1181. Domenico Gundissalvi svolse un ruolo fondamentale, mediano tra il pensiero di Avicenna e la dottrina cristiana. Oltre a tradurre, scrisse opere di cosmologia e psicologia per dimostrare la conciliabilità tra le due visioni. Tra le sue influenze, l'idea che la creazione sia un processo di emanazione attraverso intermediari si diffuse tra i cristiani.

Verso la fine del XII secolo, un trattato anonimo, il Libro delle cause prime e seconde, amalgamò passi tratti da autorità cristiane neoplatoniche come Agostino, Pseudo-Dionigi e Scoto Eriugena, insieme a passi di Avicenna e del Libro delle cause. Un contributo significativo all'assimilazione della teoria dell'anima di Avicenna nell'ambiente parigino giunse da Guglielmo d'Auvergne, teologo e vescovo di Parigi dal 1228. Guglielmo d'Auvergne fu pioniere di un movimento noto come "agostinismo avicennizzante", evidenziando l'identificazione dell'intelletto attivo di Avicenna con il Dio cristiano che illumina l'uomo, concetto centrale nel pensiero di Agostino di Ippona.

Da quel momento in poi, l'assimilazione di Avicenna proseguì ininterrottamente, nonostante le sfide teoriche relative principalmente a due questioni:
1) la concezione di Dio di Avicenna come origine di un processo di emanazione eterna caratterizzato dalla necessità piuttosto che dalla libertà.

2) Il Dio di Avicenna origina direttamente un unico effetto, la prima intelligenza immateriale, mentre il resto della realtà si manifesta attraverso intelletti intermediari. In questa prospettiva, non è il creatore immediato degli individui e non è a conoscenza delle loro azioni.

Questo approccio si discosta dai principi della visione cristiana che concepisce Dio come un agente libero e onnipotente, creatore istantaneo di ogni realtà tramite i suoi pensieri, espressi nelle "ragioni seminali" secondo Agostino.

In questa concezione, Dio è in relazione diretta con ogni cosa creata e, soprattutto, con ogni essere umano. Nonostante ciò, Avicenna è considerato fedele interprete della dottrina aristotelica dai teologi cristiani del Duecento. Coloro che accettano la sua metafisica e la teoria dell'anima, pur apportando correzioni per renderle compatibili con la dottrina cristiana, spesso credono di seguire Aristotele in questo modo.


Al-Gazali


Al-Gazali, nato nel 1058 a Tus, Persia, rappresenta una significativa reazione da parte di un teologo asharita contro i filosofi. Inizialmente dedicato agli studi legali, si è poi immergito nella scienza del discorso su Dio (kalam) e ha abbracciato l'asharismo. Diventato docente di diritto religioso a Baghdad nel 1091, ha scritto opere come "Le intenzioni dei filosofi" e "L'incoerenza dei filosofi" in cui si confronta con le filosofie greche e musulmane.

Nel 1095, al-Gazali ha vissuto una crisi personale che lo ha spinto ad abbandonare Baghdad per una vita solitaria, abbracciando il misticismo sufi. Questa corrente islamica predica un'esistenza ascetica e contemplativa per purificare il cuore dalla distrazione da Dio. La consapevolezza della finitezza umana e dell'incapacità di conoscere la verità attraverso la ragione è diventata decisiva per lui, come testimoniato nel suo scritto autobiografico "Salvezza dalla perdizione".

Ritornato all'insegnamento nel 1106 a Nishapur, ha poi brevemente insegnato a Tus, sua città natale, dove è morto nel 1111. La critica di al-Gazali era rivolta soprattutto al pensiero di al-Farabi e Avicenna, evidenziando l'incompatibilità delle loro tesi con l'insegnamento del Corano. Le intenzioni dei filosofi furono tradotte in latino a Toledo nel 1145 ma senza la parte introduttiva, causando fraintendimenti sui suoi intenti. Al-Gazali, noto come Algazel, fu erroneamente considerato un fedele seguace di Avicenna dai teologi latini. Nella "Salvezza dalla perdizione", descrivendo il suo percorso dalla scienza del discorso su Dio al misticismo sufi attraverso lo studio della filosofia, al-Gazali esprime chiaramente il suo disprezzo per i filosofi, siano essi greci o musulmani, tacciandoli tutti di miscredenza e ateismo.

I materialisti, definiti come "gli atei per eccellenza", rifiutano l'esistenza di un Fattore provvidente e di un Sapiente onnipotente. Sostengono che il mondo è sempre esistito nella sua attuale forma e che tale condizione è immutabile nel tempo. I naturalisti, d'altra parte, hanno condotto approfondite ricerche sul mondo naturale, identificando in esso la mano di Dio. Tuttavia, pur riconoscendo l'esistenza di un Creatore saggio, negano concetti come l'aldilà, l'immortalità dell'anima, il paradiso e il fuoco eterno, la risurrezione e il giudizio finale. In questo modo, anche se credono in Dio, vengono considerati "atei", poiché la fede si basa sulla convinzione in Dio e nell'Ultimo Giorno.

I teisti, o "gli ultimi venuti", tra cui sono citati Socrate, Platone e Aristotele, respingono le tesi dei materialisti e dei naturalisti. In particolare, Aristotele confuta i primi due, mentre Platone e Socrate vengono respinti ma con alcune riserve riguardo alle credenze eretiche, come l'eternità del mondo. Al-Gazali giudica infedele anche Aristotele e i "sedicenti filosofi musulmani", come al-Farabi e Avicenna che lo seguono. Nell'opera "Incoerenza dei filosofi", al-Gazali elenca venti proposizioni (sedici di metafisica, quattro di filosofia della natura) sostenute da al-Farabi e Avicenna e le contesta una per una. Le critiche si concentrano su tre affermazioni che limitano la potenza della volontà divina, considerate da al-Gazali come miscredenti ed eretiche: l'eternità del mondo, l'ignoranza di Dio riguardo ai dettagli, comprese le azioni umane e la negazione della resurrezione del corpo. Al-Gazali sostiene che questi errori derivano dall'incomprensione della natura di Dio, come rivelata dal Corano: Dio ha il potere assoluto, ha creato il mondo dal nulla e ogni sua azione non è soggetta a una necessità logica. Inoltre, Dio conosce tutto, possiede la prescienza di ogni evento e atto umano, essendo egli stesso l'artefice di tali eventi. Pertanto, secondo al-Gazali e gli ashariti contro i mutaziliti, è fondamentale affermare che:

"[...] le azioni degli uomini sono create da Dio eccelso; acquisite dagli uomini; volute da Dio eccelso; Egli si degna di creare e di inventare; Egli può imporre compiti insostenibili; Egli può far soffrire l'innocente e non è tenuto ad operare il meglio per le creature [...]"
(Il ravvivamento delle scienze religiose, tomo I, libro II)

Nel nome dell'onnipotenza divina, al-Gazali esprime critiche nei confronti del legame di causa ed effetto proposto dai filosofi tra Dio e il mondo. Secondo al-Gazali, non esiste una connessione necessaria tra i fenomeni naturali; è solo l'abitudine a farci credere che un evento segua necessariamente un altro. Egli sostiene che dietro all'ordine apparente dei fenomeni agisce la libera volontà di Dio, il quale può alterare i legami che percepiamo, compiendo miracoli. Chi ritiene necessaria la connessione osservata abitualmente tra i fenomeni nega la possibilità che Dio possa interrompere il corso ordinario delle cose, compiendo gesti straordinari come trasformare un bastone in un serpente, resuscitare i morti o mettere fine al mondo.

La critica fondamentale di al-Gazali riguarda la natura stessa di Dio. Mentre i filosofi lo considerano trascendente rispetto al mondo creato e lo definiscono come "pensiero di pensiero", posizionandolo all'inizio di un processo al quale egli stesso non appartiene, al-Gazali trova ciò inaccettabile e in contrasto con il Corano. Secondo la sua visione, Dio è una libera volontà onnipotente, una presenza attiva nel mondo che agisce su ogni cosa e comprende ogni cosa secondo un disegno imperscrutabile. L'uomo può solo contemplare gli effetti di questo disegno senza comprenderne le cause. Al-Gazali propone la via del misticismo sufi come il cammino verso Dio, sottolineando che attraverso la purificazione del cuore si può preparare ad accogliere l'illuminazione divina, la sola forma di conoscenza possibile:

"[...] sappi che i sufi propendono piuttosto per le scienze ispirate che non per quelle insegnate. [...] Essi affermano: la Via consiste nel dar la preferenza alla lotta contro le passioni, nel sopprimere le qualità riprovevoli, nello spezzare tutti i vincoli e procedere col massimo impegno verso Dio. Ogniqualvolta si riesce a ottenere ciò, è Dio quegli che si assume la cura del cuore del Suo servo, quegli cui è affidata l'illuminazione con le luci della scienza. E quando Dio si assume la cura del cuore, la misericordia di Lui lo inonda, la luce vi risplende e, il petto essendosi allargato, gli si scopre il mistero del mondo del Reame, si dissipa per la grazia della misericordia il velo dell'errore avanti al cuore e brillano in questo le realtà delle cose divine [...]"
(Il ravvivamento delle scienze religiose, tomo III, libro I)

L'essenziale consiste nella fede nei dogmi e nella loro assimilazione dedicandosi a Dio; solo così si può raggiungere la vera beatitudine del cuore e attendere il momento in cui la conoscenza sarà rivelata direttamente da Dio dopo la morte. A quel punto, gli uomini potranno contemplare ciò in cui in vita hanno creduto solo spiritualmente. L'opposizione di al-Ghazali ai filosofi ha avuto un impatto significativo nel mondo musulmano orientale, promuovendo da un lato il tradizionalismo religioso e dall'altro il misticismo sufi. In questo modo, si conclude sostanzialmente la tradizione filosofica dell'Islam orientale.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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